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Il tema che fa da sfondo al libro di Ricci verte sui meccanismi di repulsione e di odio che agirono nella coscienza cristiana europea messa di fronte alla diversità turca e islamica, e che vengono analizzati da un osservatorio apparentemente marginale: quello di Ferrara tra Quattro e Settecento. Ferrara, la sua corte, i suoi ceti, le sue tradizioni culturali appaiono nondimeno un punto nodale in cui si intrecciarono relazioni di ampia gittata. Non si deve dimenticare che la capitale estense ospitò nel 1438 il Concilio, che si era aperto a Basilea e che si sarebbe concluso a Firenze coll'approvazione del decreto, rimasto sulla carta, di unione dottrinale tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente. E neppure si deve scordare che la città fu centro propulsore dell'umanesimo, e poi del poema cavalleresco e quindi delle idee protestanti portate a metà Cinquecento dall'entourage che circondava la duchessa Renata di Francia, convertitasi al calvinismo. "Grande e splendida Firenze, eppure tutti i suoi tesori non eguagliano le gemme di Ferrara. Il suo popolo ne ha fatto una città e i suoi principi l'hanno fatta grande", disse Goethe nel Tasso, sintetizzando la storia di una città e di un ducato, tra i più antichi d'Italia, e governato da una casata illustre. Una retrovia, come recita il sottotitolo del titolo, ma solo se si rapporta la città estense a Venezia, con cui dovette competere per sopravvivere, e a Roma, che nel 1598 ne decreterà la fine dell'indipendenza.
A Ferrara, il mondo orientale, turco, o musulmano, o financo africano, era sinonimo di schiavo e soprattutto di schiave. Non esisteva famiglia altolocata che non facesse sfoggio di paggi barbareschi, di morette esotiche, di concubine circasse o tartare, tutte figure che l'autore ritiene espressione di una moda cortigiana: ninnoli umani che impreziosivano e rendevano fuori del comune la vita dei potenti. Se la schiavitù, insieme con le fogge degli abiti, gli arredi, gli oggetti di casa, fu un veicolo dell'appropriazione della diversità piegata ai canoni della superiorità occidentale, la Crociata risultò, invece, l'espressione della sfida indotta dalla molla dell'ambizione, alla ricerca della gloria militare e del premio religioso. Sorprendente la permanenza del movente anche quando l'obiettivo non era più quello medievale dei luoghi santi, ma si era spostato all'Ungheria, verso cui marciò nel 1566 Alfonso II d'Este, alla testa di quattromila uomini, un contingente irrisorio se confrontato con quello delle grandi potenze, ma non irrilevante: esso stesso era misura di un'ambizione che cercava di reggere il confronto con la rivoluzione militare che stava cambiando dimensioni e tecniche della guerra.
La guerra contro il turco fu quindi un ulteriore canale di confronto con l'alterità orientale, in questo caso innescato dalla paura di trovarsi i turchi in casa, armati e vincenti. Ma odio e paura non sono le uniche forze che guidarono i cristiani ferraresi. Agirono anche voci di comprensione umana e di attrazione sentimentale, che il libro cattura e descrive. Parimenti emergono scambi patrimoniali e finanziari, con fitti movimenti di uomini e di idee, dalle terre di Comacchio ai porti tunisini, libanesi e turchi, movimenti ora interrotti da piraterie, guerre e pestilenze, ora più intensi, in concomitanza con una situazione di bonaccia nei conflitti internazionali. In questo tessuto di contatti riemerge nel libro il singolare il caso di Tabarca, l'isolotto costiero fra Tunisi e Bona, di proprietà genovese, abitato da cristiani e "per due secoli un singolare luogo neutro fra le civiltà", che verso la metà del Settecento fu occupato con violenza dal bey di Tunisi. Stranamente l'autore dimentica di ricordare che qualche anno prima da Tabarca era fuggita una colonia di genovesi che aveva ottenuto dal re di Sardegna Carlo Emanuele III il diritto di trasferirsi nell'isola di San Pietro, dove i profughi fondarono Carloforte.
Il libro è ricco di episodi anche minimi, tra la cronaca e il costume, letti con acume, ma a volte fissati in una continuità senza tempo che fa perdere di vista il cambiamento che pure vi fu nei rapporti tra cristiani e turchi, sullo sfondo di una Ferrara sempre meno rilevante nelle relazioni internazionali, e di un sempre più rilevante sistema imperiale ottomano, con le sue propaggini sulle coste africane, sui mari, nei Balcani, a ridosso di una cristianità che si avvertiva minacciata.
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