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D'accordo, degli omaggi a Coltrane non se ne può più, ormai è quasi fin troppo facile, farsi belli con i nomi, i cognomi e la musica degli altri, Miles, Duke, Monk, Count, e subito si attira l'attenzione con il tema celebre, il suono accattivante, l'accordo frigio, il pedalone modale, a ricalcare schemi già sentiti e risentiti. Tuttavia questo disco ha un'eleganza e un drive che lasciano stupefatti: sarà l'abilità di Stefano Cocco Cantini di riproporre i temi del grande sassofonista con logica essenziale e svilupparli personalmente solo nello spirito di Coltrane, soprattutto al sax soprano, squillante e aspro quanto basta, ma anche lucido e flessuoso quando necessario; sarà per l'incedere autorevole di Ares Tavolazzi, dal contrabbasso panciuto e intelligente che guida il quartetto nelle zone giuste; sarà per la tavolozza armonica di Francesco Maccianti, che solo a sprazzi richiama McCoy Tyner, giusto per contestualizzare storicamente, ma si muove autonomamente seguendo ispirazioni eterogenee; sarà per la trama ritmica di Piero Borri, che in India riporta il raga dalle tabla al rullante e balla sui piatti con leggerezza; sarà per il repertorio scelto, prevalentemente del periodo Impulse, forse quello ancora da esplorare più a fondo; sarà per il suono di questo album, così naturale, potente e avvolgente, che ascoltarlo sui monitor del computer è un delitto efferato; sarà per altri motivi che sicuramente chi lo ascolterà potrà individuare a suo piacimento, ma sull'ennesimo tributo a John Coltrane mi viene da dire: ancora uno e poi basta. Questo.
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