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Si rimane sempre dubbiosi davanti a ogni biografia scritta presto, troppo presto, quando la persona di cui si ricostruisce la vita è appena scomparsa. L'impresa spaventerebbe chiunque. Qua e là i limiti di una ricostruzione prematura si scorgono nel lavoro di Borgna, specialmente nell'ultima parte e conclusiva, dove la mano del giurista ha la meglio sul biografo, in un'arringa difensiva contro i detrattori di Galante Garrone, che per le sue dimensioni, e un po' anche per la sostanza e la mozione degli affetti che la sorregge, rischia di diventare una (controproducente) excusatio non petita. Rispetto alla prima parte, molto oggettiva e assai bene documentata, l'attacco sferrato nel finale contro chi, a suo tempo, proprio a partire da un libro-intervista curato dallo stesso Borgna (Il mite giacobino, Donzelli, 1994) teorizzò il cosiddetto "gramsci-azionismo" di Galante Garrone, svia la lettura; capita così a chi scorre il volume di trovarsi alla fine di nuovo immerso in una querelle che se già al suo nascere parve molto rancorosa, ora soprattutto, e per fortuna, risulta largamente superata dai tempi.
Il libro è invece molto interessante per la ricostruzione degli anni giovanili, per la formazione intellettuale del magistrato e, soprattutto, dello studioso del Risorgimento. Borgna insiste sulla inclinazione di Galante Garrone a farsi tutore dei vinti e dei deboli. E fa assai bene: pagine molto interessanti sono dedicate ai precoci interessi di ricerca per aspetti e personaggi poco conosciuti della storia d'Italia e di Europa, dove si intravedono subito i caratteri di un temperamento mosso non dal rancore ma dal principio mazziniano-sincretistico del tout comprendre pour tout aimer: ad esempio è notevole la capacità di difendere la laicità dello stato senza precludersi l'interesse per il sentimento religioso (esemplari rimangono gli studi di Galante Garrone sul mazzinianesimo nel Novecento, nelle sue diverse forme, donde il legame che questo genere di ricerca generò, in discorde concordia, con Salvemini).
Questo aspetto di uno studioso che rincorre la coincidenza degli opposti e si fa tutore dei vinti consentirebbe di misurare non sul campo della polemica giornalistica, ma sul terreno delle interpretazioni storiche, quanto sia sbagliato puntare proprio contro di lui e non magari contro altri la tesi del gramsci-azionismo. Si sarebbe dovuto estendere di più l'indagine sul tipo di vinti di cui Galante Garrone seppe farsi tutore.
Spesso di tratta di figure, o di nodi problematici, che per il loro essere estranei, se non ostili alla tradizione marxista, fanno di lui una personalità del tutto fuori schema, da situarsi in posizione eccentrica anche rispetto all'azionismo torinese. Ci si poteva per esempio riferire alla persistenza con cui difende Francesco Ruffini: Galante Garrone fu tra i pochi a cercare, come meglio poté, di tenere acceso il ricordo di una figura, di cui nessuno, ma proprio nessuno, nell'Italia del dopo-Liberazione, ha avuto tempo e voglia di parlare. Se la damnatio memoriae sembrerebbe pesare tragicamente persino su Salvemini, che cosa dovremmo dire per Ruffini? Altri vinti dimenticati, difesi controcorrente da Galante Garrone, sono stati gli interventisti democratici, di cui forse Borgna avrebbe dovuto sottolineare la difesa pronunciata quando l'interventismo democratico era posto all'indice dalla stessa storiografia di cui Galante Garrone si dice sia stato succube. Al solito lo storico, armato di pietas, manifestava simpatia umana verso ogni forza "terza" che cercasse di aprirsi un varco fra opposti massimalismi (dei nazionalisti estremi e degli utopici pacifisti). Notissimo poi è l'aiuto concreto che Galante Garrone diede a Primo Levi nei suoi anni più difficili, quelli del rientro a Torino. Nel 1947 anche Levi era un vinto, un dimenticato, come lo erano tutti i superstiti dai Lager.
Aggiungerei infine la tenacia con cui, fedele a Carlo Casalegno, proprio nella difesa ad oltranza dello Stato d'Israele Galante Garrone si distinse da quasi tutti gli altri azionisti torinesi. Comunque uno la pensi sulla tragedia mediorientale oggi, onestà di pensiero vorrebbe che gli venisse restituito il merito di una linearità di atteggiamento che non vacillò nemmeno dopo la guerra del Libano del 1982, quando gli amici di Israele di più antica data, lo stesso Primo Levi e lo stesso Giorgio Agosti (lo dimostra la recente edizione dei diari) iniziarono, a torto o a ragione, a vacillare. Né pare di avere mai visto un Galante Garrone tornare da un viaggio in Cina per spiegarci che la rivoluzione maoista avrebbe potuto essere il toccasana per quella arretratezza della democrazia italiana bene lumeggiata da Salvemini. L'idea di importare la rivoluzione cinese nella storia d'Italia incantò molti all'ombra della mole, ma sempre parve a Galante Garrone non un'idea, ma una sciocchezza. Il fatto è che per quegli anni tormentati, di solito si parla per schemi precostituiti, perché di ricordi si tratta ancora troppo vicini. Che non vi sia stata subalternità lo dimostra Borgna quando elenca uno per uno i momenti di divaricazione, a partire naturalmente da Politica e cultura di Norberto Bobbio.
Si potrebbe aggiungere, per completare il quadro, che la divergenza non riguarda tanto il gramscismo ortodosso, quanto i movimenti nati alla sinistra del partito comunista. Vi ha accennato Vittorio Foa, proprio sull'"Indice" (1986, n. 7-8), rammentando l'attacco spregevole che nel 1963 era venuto contro Lessico famigliare e quello che allora amabilmente si definiva "lo snobistico antifascismo azionista torinese" (i termini della controversia sono bene riassunti da Domenico Scarpa nella Cronologia di "Lessico famigliare" posposta all'edizione Einaudi,1999, ma il discorso meriterebbe un'indagine a sé, perché il fenomeno non fu affatto di breve durata, se una quindicina di anni dopo, lo si vedrà ricomparire all'orizzonte quando Primo Levi verrà attaccato per aver scritto l'apologia di un operaio specializzato, e felice del suo lavoro ben fatto, in La chiave a stella).
Il libro di Borgna si avvale di documenti inediti, frutto di una prima ricognizione nell'archivio di famiglia in via di riordinamento, oltre che di immagini tratte dal prezioso album fotografico, dove domina incontrastato, come nell'album di Italo Calvino, l'amore per la bicicletta, mezzo di trasporto che il torinesissimo Lombroso aveva incautamente paragonato a un flagello divino e che tanta parte avrà invece nella storia dell'antifascismo e della Resistenza in Piemonte. La storia di amore di Sandro con Maria Teresa (Mitì) Peretti Griva è uno dei punti di forza del libro: viene narrata con un pudore consono alla natura dei personaggi descritti.
Alberto Cavaglion
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