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Cosa è successo in Iraq? Qual’è il compito della letteratura? Ma soprattutto: esistono risposte condivise a queste due domande? Comparare giornali di diversi orientamenti politici, confrontarli su un qualsiasi avvenimento – politica interna, fatti internazionali – è un’attività frustrante, a meno che non voi non siate degli antropologi curiosi: nel qual caso, potrebbe risultare persino stimolante. Il mondo, del quale siamo soliti parlare al singolare, è in realtà irriducibile ad un’unica visione: è finito il tempo delle grandi narrazioni capaci di fornire un modello onnicomprensivo della realtà. Il marxismo, la psicanalisi di Freud, il cristianesimo, il capitalismo con il suo libero mercato, si sono frantumati contro la molteplicità delle esperienze quotidiane. In questo senso, la letteratura, quella ancora capace di cambiare la testa delle persone, costruisce uno dei grimaldelli più importanti per incrinare la compattezza di qualsiasi visione assoluta, o onnicomprensiva. Perché la letteratura – quando è animata dal coraggio intellettuale – pone domande alle quali non esiste un’unica risposta. “Palace of the end” di Judith Thompson, pubblicato dalla giovane casa editrice Neo Edizioni di Francesco Coscioni e Angelantonio Biasella, è una piece teatrale che parla di Iraq. L’autrice, molto conosciuta in Canada per le sue opere, sceglie una struttura basata sull’accostamento di tre monologhi, ciascuno dei quali presenta un diverso punto di vista: tre visioni particolari che, prese assieme, non consentono comunque di avere un quadro unitario. Il mondo, in altre parole, non è qualcosa che può essere diviso in tre spicchi, rimettendo insieme i quali si ottiene una rappresentazione coerente: al contrario, l’esplosione, sapientemente controllata, di rappresentazioni private della realtà, che condividono solo un tessuto comune di eventi, diventa l’espressione più nitida dell’irriducibile complessità del mondo stesso ad unico modello.
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