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L'idea iniziale sarebbe anche interessante peccato sia stata diluita, attraverso i vari capitoli, spesso in modo ripetitivo e autoreferenziale: ho abbandonata la lettura a metà libro.
fa pensare.
Ho cercato invano di finire di leggere questo libro, il cui titolo mi aveva affascinato così come l'argomento mi ha sempre interessato. Mi è dispiaciuto trovarlo vuoto e inutile, o meglio pieno di nulla e inutile a mettere in luce la poesia e il significato dell'oggetto panchina. Più che un omaggio a questo straordinario oggetto urbano, il libro appare piuttosto la raccolta di una serie di immagini e di note autobiografiche dell'autore condita con citazioni di libri, film etc. in maniera piuttosto narcisistica e autoreferenziale. L'idea della panchina, che periodicamente riemerge nelle cronache cittadine, viene sfruttata per un autocelebrazione dell'autore che raramente riesce a fornire, in questo testo, spunti di riflessione che esulino dal banale. Forse le vendite del libro verranno trascinate dalla cronaca, ma a quel punto, se siete interessati è sufficiente limitarsi alla cronaca o rischiate di trovarvi per casa questo libro per mesi senza avere il coraggio ne di metterlo definitivamente da parte ne di finirlo. Ultima nota per i grafici che hanno ideato la copertina: alla fiera di roma avete sbandierato la vostra filosofia ad alta voce e con molta convinzione. Ricordo il vostro rifiuto della corrispondenza farfalla-farfalla (per chi non era presente: se il libro parla di farfalla e nel titolo vi è una farfalla MAI nella copertina deve esserci una farfalla). Peccato che lo stesso ragionamento non valga nel caso di panchina-panchina.
Recensioni
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Quante forme di flânerie sopravvivono nella città contemporanea? Dove si insinuano? Per Beppe Sebaste, oziare, darsi il tempo di perdere tempo, contemplare lo spettacolo del mondo hanno una luogo privilegiato: le panchine. Antico arredo della città moderna e dei suoi spazi collettivi. Evocatrici di un modo di stare nello spazio urbano talmente svalutato, da acquisire un senso completamente diverso: stare su una panchina (senza essere anziani o accudire infanti) genera imbarazzo, dà un senso di provvisorietà, di declino (nel lessico attuale è il contrario che "scendere in campo"). Sulle panchine si ritiene ci stiano coloro che non possono stare altrove. Così che, per la paura di questi, le panchine si rendono inagibili, si segano, non si mettono. Sintomo tra i più chiari del rovesciamento radicale nel pensare lo spazio collettivo. Di contro, questo libro vuole essere una meditazione sull'abitare lo spazio pubblico e sullo spettacolo della vita degli altri. Una meditazione nostalgicamente moderna. A mezzo di un oggetto in via di estinzione, la cui "gratuità" e "grazia" sembra bandita dal nuovo orizzonte del welfare. Richiamandosi a Perec, Sebaste racconta del suo tempo passato sulle panchine un po' ovunque, racconta di panchine che compaiono in libri, film e fatti di cronaca (esilarante la condanna agli arresti domiciliari e l'evasione in una panchina di piazza Aquileia a Milano, nel 2007). Anche grazie alla lievità della cronaca e del ricordo, la panchina diventa qualcosa di più solido: un punto di vista sulle cose, un ordine nella loro disposizione che non rimanda a un piano di abbellimento del suolo, ma piuttosto a un soggetto. È il soggetto che percepisce l'ordine dello spazio, per mezzo della sua contemplazione (comodamente seduto, aggiungerebbe Sebaste, da qualche parte). Cristina Bianchetti
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