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La "politica delle libertà" di Ronald Reagan, al centro degli atti di un convegno tenutosi a Milano nel maggio 2005, ebbe quale suo miglior approdo, secondo Marco Sioli, docente di storia dell'America del Nord nel capoluogo lombardo e curatore della collettanea, un'efficace decentralizzazione, motivata dalla volontà di far scendere le spese federali; su due mandati presidenziali, non se ne registrano ulteriori reali benefici. Nonostante i gravi errori commessi da Reagan, in queste pagine puntualmente sottoposti a esame, quando il presidente lasciò la Casa Bianca, la percentuale dei consensi toccava il 60 per cento: merito delle sue doti di comunicatore. Dagli anni trenta, era stato via via commentatore sportivo, attore "à la Flynn" e presidente del sindacato attori, poi portavoce della General Electric; infine, dal 1966, governatore della California come uomo di Barry Goldwater, la cui figura non manca in queste pagine di essere richiamata. Capace di volgere a fini repubblicani l'approccio amabile e ottimistico di Roosevelt, Reagan riuscì da un lato a catturare il consenso, elettoralmente assai remunerativo, di quello che Paolo Barcella definisce un "fronte fondamentalista interreligioso", dall'altro di realizzare fino in fondo le proprie promesse elettorali, anche nel quadro di una certa continuità, in molti ambiti, rispetto al predecessore Jimmy Carter. Non a caso, fu con la sua innovativa leadership che il Partito repubblicano iniziò a "marciare nella direzione di un partito di quadri, scientificamente organizzato, generosamente finanziato e capillarmente collegato con il territorio" (Giovanni Borgognone).
Daniele Rocca
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