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Romanzo interessante anche se di non facile lettura, in cui l'autore racconta il rapporto tra i tre protagonisti, espressione di tre diverse generazioni, e il fascismo e la Resistenza in Valsesia. ""Cosa devi chiedere al comandate Cino che non puoi chiedere a Gesù? A Gesù si può chiedere tutto... tutto, eccetto di fare del male...", lo zio vacillava, ben conoscendo quanto debole luogo avesse il proprio argomento... (...) "Voglio un fucile". (...) Soffolto dal tardivo calore del materasso, postillò al comandate Moscatelli al fondo della lettera che aveva già confezionato: oltre al fucile, che ormai rappresentava il desiderio più semplice e innocente, domandava ancora due cose: che lo zio tornasse, come se il comandante dai monti potesse esaudire le preghiere, e che a lui, Umberto, fosse concesso di portare come nome da ribelle quello di 'Inverno': partigiano Inverno. Chiuse la luce e gli occhi. "Inverno, chiamatemi Inverno". Gli sembrava il più solido e fiero nome di cui un ribelle potesse fregiarsi".
Ho fatto davvero fatica a portare a termine la lettura. Mi aspettavo molto da questo romanzo, quindi probabilmente la delusione è stata ancora maggiore. Un linguaggio volutamente artificioso, senza una reale necessità. E poi davvero noioso, non succede nulla per tre quarti del libro. Peccato
Libro non facile da giudicare. Di positivo l'idea (che però l'autore ammette di avere tratto da un'opera mai scritta), la descrizione del paesaggio, sicuramente dei personaggi. E certi passaggi davvero efficaci: "Quando uscivano, [dalla stanza dove erano stati torturati] uno via l'altro, non erano più esseri umani. E neppure i loro carnefici". Di negativo? Premetto che insegno Letteratura negli istituti superiori, leggo molto, mi pare di avere un vocabolario decente ... e quindi mi sono sentito davvero a disagio quando mi sono reso conto che non passava pagina senza la necessità (a cui poi ho rinunciato) di una visita al vocabolario. Ma ce n'è davvero bisogno? Il linguaggio espressivoi va benissimo, frasi come "La gente, già uscita a feccende, rinchiocciolò pupillando dagli scuri" sono molto efficaci. Ma che dire di altre? Una fra tutte: "Due dei suoi, i ribelli glieli glieli avevano uccisi: uno a Agnona, le buffetterie invermigliate dalla colla del sangue cervone fatto con l'ore tanè" (pag 180). Qualcuno me la potrebbe spiegare? Insomma, un bel libro, alla fine, ma un po' intriso di manierismo, di un linguaggio (di cui rivendica la paternità lo stesso autore) che troppo spesso rallenta la lettura. Due ultimi rilievi: se si racconta una storia, qualche fatto bisognerà pure che accada no? E qui, fino all'assalto partigiano di Borgosesia di eventi ce ne sono davvero pochi. Infine: la descrizione della fucilazione dei dieci, nella parte relativa al podestà Osella, si ritrova quasi parola in "A cercar la bella morte" di Carlo Mazzantini, che la descrive avendola vissuta da milite fascista.
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