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La pasta e la pizza - Franco La Cecla - copertina
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pasta e la pizza

Dettagli

2002
16 ottobre 1998
116 p.
9788815065834

Voce della critica


recensioni di Cinotto, S. L'Indice del 1999, n. 04

In un saggio sulle "Annales" di quasi quattro decenni fa, Roland Barthes asseriva che le culture alimentari contemporanee tendono ad attribuire il carattere di tipicità ad alcuni piatti del proprio repertorio, inventandone un’origine premoderna o preindustriale. La pasta e la pizza, cibi comunemente pensati in termini di patrimonio collettivo di antica tradizione e, come tali, aventi un valore significativo nella costruzione dell’identità nazionale italiana, assumono un valore paradigmatico rispetto a questa affermazione.

Ma, "come mai pasta e pizza sono diventati a tal punto il cibo italiano per eccellenza da essere tutt’uno con i caratteri dell’italianità non solo dall’interno, per come noi ci vediamo, ma anche e soprattutto dall’esterno, per lo sguardo straniero che ci riconosce come un gruppo umano che si differenzia nettamente dagli altri?", si chiede Franco La Cecla. L’antropologo tenta di dare risposta all’interrogativo facendo sua la prospettiva barthesiana. L’intento preliminare di La Cecla è, infatti, di chiarire che questi due simboli dell’italianità sono diventati tali solo recentemente, e con il contributo decisivo di un avvenimento realizzatosi fuori d’Italia: l’incontro fra gli emigrati italiani e la società americana.

A questo scopo l’autore, nella prima parte del libro, traccia la storia della pasta e della pizza nell’Italia in formazione, sottolineando come, fino all’Unità e oltre, il consumo di questi cibi fosse limitato ad alcune realtà regionali. Ancora all’inizio del secolo, la pasta era un alimento di consumo quotidiano solamente a Napoli, mentre per molti italiani rimaneva un piatto dei giorni di festa, per non parlare della pizza, sconosciuta fuori dal capoluogo campano.

Purtroppo questo capitolo non presenta alcuna novità di rilievo rispetto alla letteratura precedente. La Cecla cita ampi brani del famoso e insuperato saggio di Emilio Sereni sull’introduzione dei maccheroni nella dieta delle classi popolari napoletane e la nascita dell’industria pastaia nel circondario partenopeo durante il diciassettesimo secolo. L’autore attinge poi all’opera di Piero Camporesi, nel trattare delle conseguenze gastronomiche della spedizione garibaldina nel Regno delle Due Sicilie, al tempo della quale cominciò la diffusione del modello alimentare mediterraneo nel resto d’Italia, e dell’apporto di Pellegrino Artusi alla sistemazione ufficiale di pasta e pomodoro nel repertorio culinario nazionale. Ricordiamo che Camporesi, per primo, aveva riconosciuto in La Scienza in cucina un "codice di identificazione nazionale" che "ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi".

Il lavoro di La Cecla si ispira apertamente a quello di Camporesi, che però non ha trattato l’argomento principale di La Cecla, il ruolo svolto dall’emigrazione di massa nella costruzione di un modello alimentare nazionale. Nella seconda parte il libro suggerisce che la creazione di una "cucina italiana" sia dovuta "all’incontro specifico tra la domesticità italiana ed il modello standardizzante e da vetrina del grande mercato americano in espansione".

Nelle Little Italy d’America, all’inizio del secolo, gli immigrati dall’Italia meridionale hanno trasferito una cultura incentrata sulla famiglia in comunità etnicamente omogenee. Questo parziale isolamento ha avuto come conseguenze, da una parte, la formazione di un folklore peculiare, con le sue feste religioso-pagane, i chiassosi mercati all’aria aperta e i costumi culinari, e dall’altra la produzione, da parte americana, di una serie di stereotipi che giornali, letteratura popolare, cinema e, più tardi, la televisione hanno continuato a riproporre.

Sulla scia di Barthes, La Cecla crede che la cucina del pomodoro, dell’olio d’oliva e del formaggio filante sia diventata particolarmente buona "da pensare" in virtù della sua immagine legata ai valori "tradizionali" della casa e della famiglia. La Cecla sottolinea l’importanza del capitale culturale posseduto dagli immigrati italiani e la singolarità della sua trasformazione in asset economico. "Nelle difficoltà della lotta per la sopravvivenza, gli italiani all’estero ‘ce la fanno’, e ce la fanno molto bene, molto meglio di altri gruppi di emigranti, perché speculano sulla stereotipizzazione che il Nuovo Mondo fa di loro. È in questa occasione che si crea il made in Italy".

La Cecla, dopo aver intuito l’impatto fondamentale dell’emigrazione sulle vicende della cucina italiana, trascura però gli effetti dell’immigrazione interna, che ha interessato in maniera massiccia l’Italia del dopoguerra, e neppure esamina gli esiti dell’immigrazione di ritorno, limitando la propria analisi a quanto è avvenuto su una sola sponda dell’Atlantico. Ne risulta la sensazione di una certa sopravvalutazione del contributo americano al processo in esame.

Nell’ultimo capitolo, La Cecla prova a teorizzare il "mangiare e pensare italiano": c’è una speciale sensibilità verso il cibo che viene trasmessa nell’infanzia insieme alla lingua; chi mangia le stesse cose diventa simile in senso fisiologico, ma soprattutto, sostiene l’autore, chi mangia le stesse cose acquisisce una mentalità, un sistema di classificazione delle cose, un complesso culturale di impossibile comprensione, nella sua apparente arbitrarietà, per chi non ne fa parte. È questa l’identità collettiva.

La Cecla ha fatto largo uso delle intuizioni di alcuni degli scienziati sociali i cui contributi si sono rivelati i più fecondi nello studio dell’alimentazione e dei sistemi alimentari. Il libro deve molto al lavoro degli antropologi inglesi Jack Goody e Mary Douglas, citati più volte nel testo. Dal primo La Cecla riprende l’idea che il sistema alimentare di una società, indicato da molta antropologia come il tratto culturale più resistente al cambiamento e impermeabile alle influenze esterne, sia in realtà il prodotto complesso di scambi e prestiti sia "interni", tra "cucina alta" e "cucina popolare", sia "esterni" (come nel caso dell’emigrazione italo-americana). Da Mary Douglas deriva invece l’idea di una cucina-cosmologia, della cucina come sistema di norme e ingredienti organizzati che rispecchia le regole di classificazione prevalenti in una determinata cultura.

Il maggiore merito dell’autore sta nell’avere saputo organizzare in modo brillante fonti estremamente eterogenee – condizione inevitabile dato l’argomento – all’interno di modelli teorici validi e felicemente scelti.

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La recensione di IBS

Fino al '600, secolo in cui vengono a mancare molte risorse alimentari e si riscoprono i cereali, sulle tavole dei ricchi e dei poveri comparivano per lo più carne e verdura. A partire dalla Sicilia, sulla base di antiche tradizioni arabe, e poi via via nelle zone meridionali, si procede alla fabbricazione di pasta secca, la vera invenzione italiana, considerata tuttavia fino all'Ottocento un lusso e una ghiottoneria. Ma è l'impresa dei Mille che fa in modo che piemontesi, lombardi e veneti conoscano maccaroni e vermicelli.
Dopo l'impresa garibaldina pasta e pomodori percorrono trionfalmente tutta la penisola dando nuova polpa e sapore alla cucina settentrionale, in gran parte tributaria di quella francese. Pellegrino Artusi farà il resto: inventerà e "codificherà" una cucina italiana, sintesi delle tante cucine locali e regionali, che avrà nella pasta il suo perno. Milioni di italiani all'estero contribuiranno poi a diffondere questa nuova immagine italiana.
Pasta e pizza sono state l'espressione di due "aspetti egualmente importanti, anche se divergenti, della socialità degli italiani: la socialità festosa, conviviale-amicale, proiettata all'esterno che è tipica della pizza (un cibo che tradizionalmente si mangia pressoché soltanto fuori di casa), e viceversa la socialità 'chiusa', tipica della domesticità, di quel vero e proprio compendio dell'identità nazionale che è la famiglia, e che è propria del desco dove si serve e si mangia la pasta" (Ernesto Galli della Loggia).

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Conosci l'autore

Franco La Cecla

1950, Palermo

Antropologo e architetto, Franco La Cecia, ha insegnato antropologia culturale alle Università di Venezia, Verona e Palermo. Attualmente insegna Antropologia dei media alla Naba di Milano. Ha tenuto corsi di Antropologia e Architettura all’Università di Berkeley, all’Ehess di Parigi, all’Upc di Barcellona. Il suo documentario In altro mare ha vinto il San Francisco Film Festival nel 2011. Amico e allievo di Ivan Illich, ha scritto una prefazione a una serie di conversazioni con il grande maestro pubblicate in Italia da Elèuthera. Autore particolarmente curioso e attento alle problematiche della vita e della società contemporanea, ha scritto saggi di successo quali Perdersi. L'uomo senza ambiente, Lasciami. Ignoranza dei congedi, Non è cosa....

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