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«La follia esplodeva uguale a un vulcano.»
In un castello trasformato in istituto psichiatrico, il dottor Anselmo considera i suoi malati persone che hanno smarrito, spesso solo temporaneamente, la luce dell'intelligenza. Ma che non hanno smarrito i sentimenti, pronti a riaffiorare intatti non appena il delirio cessa di suscitare immagini irreali, potenti e devastatrici. Per le antiche scale trasfigura l'esperienza personale di Mario Tobino in un intenso discorso umano e artistico sorretto da una vibrazione lirica che dona lievità e mobilità inconfondibili al suo stile. La sua è un'adesione partecipe e disarmata alla realtà, un arrendersi alle cose superando qualsiasi diaframma tra medico e paziente, e annullando così ogni distanza tra lo scrittore e la sua materia.
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Questo romanzo scende in profondità, si annida in un angolo di frescura e continua a parlare anche a distanza di anni. Sono le vicende raccontate dal dottor Anselmo, psichiatra mandato a lavorare nel manicomio di Lucca. Prima ancora della legge Basaglia si intuisce un cambiamento nel modo di relazionarsi fra paziente e malato, si cerca un dialogo, un punto di vista personalizzato nell'approccio. Così ci si sorprende a scoprire come chi non riesca a organizzare un discorso coerente con le parole possa farlo attraverso la musica o come ci siano sentimenti di puro amore e speranza in chi ha trovato la cura giusta. La malattia mentale raccontata come esperienza con cui confrontarsi sempre. Una indimenticabile testimonianza di un mondo di reclusione scomparso.
Mario Tobino, a livello letterario, non ebbe, almeno nei primi tempi, vita facile né strade spianate. Classe 1910, psichiatra amante del proprio lavoro e ad esso assai dedito, letterato irregolare e a tempo parziale, antifascista, di carattere schietto e venato di spirito anarchico, il successo gli arrise tardi e "Per le antiche scale", edito nel 1972, gli valse il premio "Campiello" e un largo consenso di critica e di pubblico, consacrandolo definitivamente scrittore di valore oltre la sessantina, e a questo libro si appiccicò l'etichetta di "capolavoro" e dunque di opera principale dell'autore. A mio avviso si tratta indubbiamente di un gran libro, ma forse non del suo libro migliore per un paio di motivi, che ammetto però essere assai opinabili e del tutto personali: da un lato per un motivo contenutistico, non essendo la tematica della vita di manicomio da lui trattata qui per la prima volta, ma già in passato, ad esempio nel celebre "Le libere donne di Magliano", del 1953; dall'altro, soprattutto, per un motivo formale, dal momento che in questa raccolta di racconti della fase matura dell'autore lo stile e il linguaggio sono più "classici", lirici e pacificati e meno graffianti acerbi e franti di quanto lo fossero in opere precedenti quali, tra tutte, i magistrali racconti di "Sulla spiaggia e al di là dal molo", del 1966. Come capite, questione di gusti personali, che mi permetto di elevare impunemente ad argomentazioni dato l'amore che nutro per questo Maestro nascosto del nostro Novecento, che reputo, insieme a Bufalino, uno dei migliori e più sottovalutati prosatori del ventesimo secolo. Chi non l'avesse mai fatto, si avvicini alla figura di Mario Tobino, violento e delicato cantore di una Versilia che non esiste più e uomo capace d'amore e di carità non pelosa per gli ultimi e i rifiutati della società. "All'invasione di una malattia mentale i sentimenti si ritirano, come in esilio (...) pronti a tornare appena l'alterazione mentale si è estinta." (p. 124)
Un grande classico ingiustamente dimenticato.L'autore racconta la sua esperienza alla direzione di un manicomio, prima della legge c.d. Basaglia. Tematica di grande spessore ma il racconto non è pesante, anzi. Agile e ben strutturato, è un testo che dovrebbe essere riscoperto e far parte delle letture scolastiche obbligatorie.
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