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Qualcuno ha recentemente proposto di abolire il Consiglio nazionale delle ricerche perché inadeguato ai bisogni del paese di oggi, come già lo sarebbe stato per quelli di ieri. Liquidarlo, come si è fatto per l'Iri, e frammentarlo in fondazioni scientifiche che dovrebbero poi guadagnarsi le risorse pubbliche su gare d'appalto, utilizzando tecniche gestionali di tipo privato: come oggi esistono le fondazioni di origine bancaria, domani esisteranno quelle di origine Cnr. Saranno le fondazioni a proporre ("liberamente", si assicura) gli obiettivi della ricerca scientifica e la naturale conseguenza sarà la privatizzazione del rapporto d'impiego dei ricercatori: solo alla fine di questo clamoroso riordino chi ha in mano i cordoni delle borsa dei finanziamenti potrebbe cominciare ad allentarli.
Di fronte a scenari come quello abbozzato - o come quello, ancora più fantastico, di trasformare il Cnr in una società per azioni - ci si domanda non solo se i vari promotori abbiano un'idea, per quanto vaga, di quali sono le tendenze della ricerca scientifica in Europa (il caso statunitense essendo troppo distante culturalmente e politicamente), ma anche se conoscano la storia del principale ente di ricerca italiano. Una storia che inizia nel 1923 (dopo diversi tentativi precedenti) e che trova un punto d'arrivo nel 1999, anno dell'ultima riforma strutturale: il tutto descritto in due volumi che potrebbero rivelarsi utilissimi nel caso si vogliano promuovere riforme sensate. Ma torniamo agli inizi: erano anni in cui la ricerca scientifica si riorganizzava soprattutto sotto la spinta del nuovo assetto internazionale e delle necessità belliche, culminate con l'esperimento di Ypres e dei gas asfissianti nel 1915. Il Cnr nasce soprattutto come emanazione di organismi di ricerca internazionali - vocazione dunque iniziale - e soprattutto per curare l'aspetto applicativo delle scienze, tendenzialmente rivolto anche alla guerra.
Da subito il Cnr paga l'anatema crociano e gentiliano contro la ricerca scientifica e lo scontro con i "filosofi": non sembra un caso che i fondi saranno - da quel momento e fino a oggi - cronicamente scarsi e che, anche attualmente, si faccia fatica in questo paese a considerare la scienza come cultura. Curiosamente, coloro che vorrebbero l'abolizione dell'attuale Cnr ricordano l'incongrua - a loro dire - collocazione delle discipline umanistiche (storia, giurisprudenza, psicologia, filologia, politica) nel Consiglio: quasi un ritorno a Croce e alle due culture, come se un secolo di tentativi di ricucitura fosse passato invano, come se non si fosse ancora pagato un prezzo troppo alto a quella falsa dicotomia.
Lo spirito di Vito Volterra - primo presidente del Cnr - è ancora in qualche modo presente nei palazzi di quello che una volta era il piazzale dell'Università (oggi Aldo Moro), nonostante la duplice faccia degli anni marconiani, con le uniformi bianche da marina del Premio Nobel e del duce durante le riunioni sull'Elettra, con la centralizzazione dell'ente e la sua trasformazione a organo di consulenza dello stato. È forse significativo ritrovare - nei documenti analizzati con un lavoro paziente e intelligente da Simili e Paoloni - la constatazione ufficiale dei primi appetiti verso la ricerca di Confindustria, che già nel 1937 auspicava che le ricerche fossero indirizzate ai propri fini. Ma se c'è un germe fecondo è forse proprio quello dell'Italia autarchica, in cui scienziati di ogni risma (esclusi ovviamente gli ebrei e i non iscritti al Pnf) si cimentano con le problematiche più assurde, dalla sostituzione del ferro nel calcestruzzo con il bambù per ottenere un cemento armato nostrano a buon mercato, alla ricerca dei succedanei dell'asfalto, del rame e soprattutto dei carburanti ormai esauriti. Sono gli anni della ricerca chimica, oltre che della tradizionale radiotecnica e della nascente fisica nucleare, anni in qualche modo epici, nonostante le leggi razziali e le espulsioni dalla comunità scientifica dei non allineati. Parte in quegli anni un inventario geo-minerario dell'Italia che, seppure teso a trovare metalli e idrocarburi, sarà oggettivamente un inizio della conoscenza sistematica del nostro territorio.
I due volumi sono ricchissimi di notizie, dati e documenti sui quali si poggia la ricostruzione della storia dell'ente e dei suoi scienziati, ma fra le righe traspare anche la storia di un paese negli anni a cavallo della guerra, con uomini di calibro diverso che si succedono alla presidenza, assillati dalle esigenze di reperire fondi e di tenere alta una produttività scientifica anche a livello internazionale. Qui si sono decise anche le fortune future di alcune discipline: la geologia, per esempio, non particolarmente simpatica al fascismo, ma decisamente negletta in seguito, quando i finanziamenti la pongono all'ultimo posto per le dotazioni, privilegiando la fisica (incremento del 158 per cento), la chimica e l'astro nascente dell'ingegneria (incremento del 90 per cento): le conseguenze le paghiamo ancora oggi con il dissesto strutturale del territorio e la cronica incapacità di fare fronte alle conseguenze catastrofiche degli eventi naturali.
La storia si chiude con l'ultimo sforzo creativo e di ricerca, quello dei Progetti Finalizzati, che hanno raccolto decine di studiosi attorno a obiettivi comuni in una cooperazione costante con le università, finalmente in un ruolo positivo dopo la cannibalizzazione di attrezzature, centri di studio, veicoli, mezzi e ricercatori. La gestione del Cnr è stata consegnata interamente ai professori ordinari universitari, che spesso lo hanno trasformato in puro strumento di potere accademico, un'altra fetta di denari, mezzi e persone da spartirsi, senza alcun interesse per lo sviluppo del Consiglio. Proprio per le sue competenze generali - che oggi gli vengono rimproverate - il Cnr è stato il vero monitor della ricerca scientifica italiana nonché l'incubatrice di nuove discipline, anche se sarebbe ingiusto non criticarne molti aspetti, dalla mancata valorizzazione delle risorse umane, alla intermittente mancanza di una strategia, alla eccessiva frammentazione. In questi due volumi si ritrovano le radici del nostro essere scienziati in Italia oggi: uno sguardo critico, ma anche legittimamente orgoglioso, e soprattutto la salvaguardia costante da leggi estranee al mondo della ricerca - non tutto può ridursi a mercato.
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