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Quante volte è nata la specie umana? Una sola, in Africa, come virgulto tardo del cespuglio del genere Homo, andato poi evolvendosi poco sul piano biologico e assai più su quello comportamentale e cognitivo? Non secondo Giovanni Felice Azzone, a lungo direttore del Dipartimento di patologia generale dell'Università di Padova e accademico dei Lincei, che propone di considerare due nascite dell'umanità: una genetica e una culturale.
In Origine e funzione della mente (Bruno Mondadori, 2008; cfr. "L'Indice", 2008, n. 10) l'autore proponeva un'interessante teoria binoculare dell'evoluzione della mente, congiungendo ontogenesi e filogenesi: il sistema mente-cervello eredita un'informazione specie-specifica dalla sua storia evolutiva, ma genera anche una mole di informazione nel corso dello sviluppo, quando agiscono non soltanto stimoli ambientali, ma anche processi interni di emergenza dell'architettura neurale basati su meccanismi di autorganizzazione, di ridondanza e di produzione di strutture dal disordine. In questa dualità di processi si innesta l'eccezionale flessibilità che permette a ciascuno di noi di produrre quei mondi idiosincratici, imperfetti e liberi che alimentano le nostre culture, le arti e i sistemi morali.
Ne derivava allora un'interpretazione integrata del doppio livello di spiegazione delle peculiari capacità umane: da un lato le esigenze adattative sedimentatesi nella storia profonda, dall'altro le esuberanti possibilità di creare mondi soggettivi sovrabbondanti e ricorsivi nel corso dello sviluppo individuale. In altri termini, una naturalizzazione della mente, senza tuttavia una riduzione dei suoi contenuti a determinanti biologici rigidi. Si trattava, allora, di un approccio teso alla conoscenza dei ponti teorici e sperimentali che potevano legare, in una dinamica continuativa, le due modalità differenti di cambiamento: l'evoluzione e lo sviluppo; la natura e la cultura.
Il cambio di passo che si nota nel nuovo libro è legato allo sguardo questa volta più rivolto ai "due tipi" di evoluzione in sé che non agli intrecci fra ontogenesi e filogenesi. La doppia nascita dell'umanità della sua morfologia ominide prima e del sistema mente-cervello poi finisce così per drammatizzare gli elementi di "discontinuità" fra i due processi, in quanto portatori di due logiche descritte come indipendenti e quasi opposte l'una all'altra: il caso e la necessità dei meccanismi di selezione, da una parte, che agirebbero in modo "molto indiretto" su di noi; processi intenzionali e liberi emergenti dal caos deterministico, dall'altra.
L'indebolimento del prerequisito di continuità comporta allora che la teoria neodarwiniana sia monca, perché in grado di spiegare soltanto la prima nascita e non la seconda, per la quale occorre fare affidamento su spiegazioni alternative che vanno "oltre Darwin". Nel libro sembra così che le due nascite divengano quasi estranee l'una dall'altra, e non invece la prima, quella darwiniana, il prerequisito abilitante per la seconda, quella culturale. Tuttavia, un darwiniano sottoscriverebbe oggi serenamente l'idea che "si nasce simili e si diventa diversi", perché l'eredità evolutiva spiega proprio quell'unità filogenetica a partire dalla quale in virtù della complessità dei processi che conducono dal genotipo al fenotipo, delle contingenze di sviluppo, dei condizionamenti ambientali e culturali ogni individuo risulta poi biologicamente e cognitivamente unico. L'"innovazione" sapiens, per quanto unica, non pregiudica la continuità della storia. Il fatto che un prodotto dell'evoluzione sia "completamente nuovo" (come per l'autore il cervello umano) non implica di per sé che anche i meccanismi che lo fanno sviluppare siano completamente nuovi.
Si fatica perciò a comprendere la necessità del ricorso a una logica esplicativa radicalmente altra basata sulla fisica delle strutture dissipative, sulla teoria del caos e sull'intenzionalità che catapulta le reti neurali umane ("non dna dipendenti") come corpi semiestranei in un punto imprecisato dell'evoluzione umana "fra i due e i tre milioni di anni fa". Molti etologi cognitivi e psicologi del pensiero si troverebbero in difficoltà dinanzi a un'ipotesi che, postulando l'esistenza nell'essere umano di "due sistemi naturali" così eterogenei, finisce per accantonare di fatto il ruolo delle cause remote comuni che pure devono aver condotto al nostro sistema cerebrale, a meno di non ricorrere alla constatazione ormai rituale di come improvvisamente "tutto cambi" nell'evoluzione umana con l'insorgere del linguaggio. Quando la continuità evolutiva è ricercata nel libro, per esempio facendo ricorso alla selezione sessuale, il meccanismo darwiniano viene interpretato in modo scivoloso come una delle prime espressioni di "comportamenti finalizzati" nell'evoluzione dei sistemi nervosi, quasi che la scelta femminile e le competizioni sessuali negli animali fossero attività proto-intenzionali. La polarizzazione estrema fra "caso-necessità" e "intenzionalità" fa sì che nel libro la logica evolutiva primaria venga tutta centrata su un marmoreo nucleo darwiniano "determinista e prevedibile" fatto solo di mutazioni e selezioni contrapposto al dominio indeterministico, e dunque libero, della cultura sottovalutando così quegli elementi pluralistici che stanno oggi integrando ed espandendo il neodarwinismo. Eppure, proprio in questo "darwinismo esteso" e riveduto si possono reperire oggi gli strumenti teorici (come la cooptazione funzionale, i compromessi fra processi selettivi e vincoli interni, gli intrecci fra selezione e autorganizzazione, l'ereditarietà genetica ed epigenetica, la contingenza storica) per riguadagnare quella continuità stretta fra evoluzione e sviluppo individuale (mente compresa) che Darwin, pur non avendo allora gli strumenti per spiegare, aveva indicato come principio metodologico. Forse l'umanità è nata non due ma molte volte, in un processo storico di sperimentazioni funzionali e di derive casuali che è comune a tutti gli esseri viventi, ma che non per questo ci impedisce di apprezzare la nostra (ambivalente) unicità di agenti intenzionali. Telmo Pievani
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