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"La misteriosa vita di Piero di Cosimo, così povera di certezze documentarie, ha inizio a Firenze nel 1462" (p. 5). Bene, è nato nella città giusta al momento giusto. "Per Vasari era il migliore fra gli allievi di Cosimo Rosselli e lo stesso maestro riconosceva che Piero aveva "più bella maniera e miglior giudizio di lui"" (p. 6). Ottimo, è l'allievo che supera il maestro. Fu "a Roma, dove egli si recava intorno al 1481-1482 in aiuto al maestro incaricato di dipingere alcune scene della "Vita di Cristo e di Mosè" sulle pareti della Cappella Sistina" (p. 6). Niente male, a vent'anni dipinge in uno dei luoghi "cult" della pittura mondiale! "Da tempo affetto da un tremore che gli impediva di lavorare, nel 1522 il pittore moriva. (...) Veniva sepolto nella chiesa di San Pier Maggiore a Firenze, non lontano dal luogo probabile della sua bottega" (pp. 46-47). Muore dunque intorno ai sessant'anni, non male per l'epoca. E poi? Tutto qui? Che gli succede tra i venti e i sessant'anni? Difficile dirlo, perché di quel quarantennio rimangono pochissime informazioni. Ma le opere, quelle sì, sono rimaste e ne sono rimaste non poche. Ed è la cosa veramente importante, perché, così affascinati dalle vite maledette di alcuni pittori "mainstream" quali Caravaggio e Van Gogh, finiamo spesso col dimenticarci che ciò che conta di un artista è la sua arte. A me piace immaginare Piero come un uomo tremendamente normale, serenamente scisso fra le sue due grandi passioni - l'arte sacra e l'arte profana - nella prima delle quali fu grande e nella seconda delle quali fu sublime, in un sereno delirio di mostri, Satiri e divinità pagane che popolano un mondo lontano e onirico. Amante dell'antico come Mantegna, estetizzante come Botticelli, a tratti geniale come Leonardo, non ebbe la fama di nessuno dei tre. E non poté neppure essere semplicemente "Piero" perché quel nome ci fa già pensare a Piero della Francesca. Fu Piero di Cosimo, in omaggio al nome del proprio maestro.
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