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Pipistrelli - Marcel Beyer - copertina
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Descrizione


Nella Berlino della primavera 1945, Hermann Karnau è una delle guardie che difendono il bunker del Fuhrer. Karnau è un maniaco del suono, e mette a punto macchine sempre più sofisticate per captare la parola, per svelarne l'intimo segreto: "la voce, l'alito, il respiro, - è solito dire - sono ciò che fanno l'uomo". Fedelissimo di Goebbels, questo gelido tecnico non esita a farsi complice degli esperimenti più brutali, pur di rubare alla voce umana i suoi segreti, vero campione della schizofrenia tedesca tra perfezionismo tecnologico e abiezione morale. E così finisce per registrare la "normalità" della vita quotidiana dei gerarchi nazisti, ormai sull'orlo dell'abisso.
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Dettagli

1997
1 gennaio 1997
256 p.
9788806142377

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Chiara
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Il protagonista, Hermann Karnau, è ossessionato dal meccanismo di produzione della voce e fa orribili esperimenti sugli internati in un lager per studiarlo. La piccola Helga Goebbels esprime in un falsissimo tono infantile le sue impressioni sul padre e sulla guerra. I due si incontrano a malapena 3 volte e diventano amici: davvero non si capisce perché diavolo Goebbels dovrebbe affidare i propri figli a... un ingegnere del suono che conosce appena. Che senso ha tutto ciò? Bruttissimo.

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Voce della critica


recensione di Chiarloni, A., L'Indice 1997, n. 8

Accanto a una poetica che poggia sulla centralità del corpo - comune a molta letteratura contemporanea, anche d'oltreoceano - si nota negli autori tedeschi più giovani uno scavo nelle sparse membra di un soggetto ridotto a cifra marginale, a individuo tatuato da una violenza istituzionale. Durs Grünbein o Thomas Hettche - ma si potrebbero aggiungere anche gli austriaci Gerhard Bolaender e Christoph Ransmayr - mettono in scena corpi franti, mutilati: vittime e al tempo stesso complici di una prevaricazione che inchioda il singolo al tavolo operatorio della Storia. E trattandosi di area germanica il rimando, talora puntualmente documentato, va agli anni del nazismo. È il caso di Marcel Beyer, nato nel 1965, che con la sua opera prima, programmaticamente intitolata "Das Menschenfleisch" (Carne umana, 1991) aveva a suo tempo proposto un'interazione, quasi un anagramma, di corpo e linguaggio. Questo secondo, notevole romanzo, è abilmente organizzato come un duetto. Ne risulta una doppia prospettiva. Quella di Hermann Karnau, una delle guardie del bunker di Hitler, qui nelle vesti di tecnico acustico al servizio di Goebbels, e quella della figlioletta del ministro nazista, Helga, uccisa col cianuro dalla madre, assieme ai cinque fratellini nell'aprile del 1945.
Karnau è un collezionista, anzi un "ladro di voci". Uno che con diligenza maniacale studia le corde vocali prefiggendosi di redigere una cartografia della fonetica tedesca. Un'ambizione di per sé innocua, ma che con lo scenario di fondo dà luogo a un macabro crescendo. Perché da una dilettantesca anatomia delle laringi animali acquistate dal macellaio del quartiere Karnau passa rapidamente alla registrazione istituzionalizzata della funebre colonna sonora del Reich. Tra una parata e l'altra Beyer - avvalendosi degli studi di Friedrich Kittler, sottolinea Andreas Köhler - incunea nel testo una sorta di microstoria della comunicazione di massa degli anni hitleriani. Inebriato da un paesaggio bellico "solcato da gole spalancate", Karnau ausculta e censisce con la stessa algida solerzia lo "Heil Hitler" della folla plaudente e il terrore afasico dei prigionieri, l'estremo impulso fonico dei soldati morenti e gli spasmi vocali delle cavie umane vivisezionate nei lager. Racconta in prima persona questo pacato, meticoloso servitore dello stato, sicché lo scempio è narrato dall'interno di una follia collettiva che prevede di "sfrancesizzare" chirurgicamente la glottide di intere popolazioni, di impadronirsi di ogni singolo individuo "scandagliandone l'interno, catturandone con la voce il nucleo più profondo". Ma rivela anche una sua ottusa mitezza, Karnau, perché come molti carnefici, ha un debole: ama infatti, oltre ai pipistrelli del titolo, i bambini. E in particolare i sei figlioletti di Goebbels.
Interviene così nel romanzo il secondo punto di vista, quello di Helga, che con il suo parlato infantile introduce il lettore tra le pareti domestiche del ministro della propaganda nazista, determinando un controcanto di notevole effetto. Perché se lo sguardo tecnologico di Karnau è intento a cogliere i suoni estranei alla glottide tedesca, a espellerli come tossine dal "sano corpo ariano", azzerando gli eventi esterni nella logica della furia chirurgica, l'occhio della bambina registra - e duplica con struggente precisione - tutti i sintomi della tragedia incombente. Beyer è maestro nel riprodurre la grazia spontanea di un linguaggio vergine che inesorabilmente si corrompe mimando gli adulti. Nella voce di Helga il lettore percorre allora lungo gli anni della guerra il lento scivolare di un privilegiato mondo infantile - fatto di giocattoli e bambinaie, baruffe innocenti e fidate bambole di pezza - nel sinistro crepuscolo di una Germania distrutta, alla deriva tra orinatoi e canili sotterranei, fino alla morte per mano materna nel bunker hitleriano.
L'ultimo capitolo, il nono, si chiude con l'esame necroscopico di Helga e la ricostruzione dell'infanticidio. Siamo nel maggio del 1945. Ma al capitolo settimo Beyer ha inserito un'impennata attualizzante: nel 1992 viene scoperto nella cantina dell'orfanotrofio di Dresda l'archivio fonografico di Karnau. Accanto una stanza rivestita di piastrelle con un tavolo operatorio. Nel referto dell'analisi medico-legale condotta sulle macchie di sangue rinvenute sulle cinghie, si legge che "l'ultima operazione potrebbe risalire a non più tardi di una settimana fa". Il verdetto di Beyer investe dunque la Germania riunificata istituendo una continuità con gli anni hitleriani. Perché è stato facile scambiare le uniformi con i miseri panni del dopoguerra, sottolinea l'autore. Ma anche se "i vincitori hanno accordato ai tedeschi ogni genere di aiuto affinché nel più breve tempo possibile avvenisse un generalizzato cambiamento nella voce", anche se "gli occupanti hanno lavorato intensamente per compilare un primo glossario di base per i vinti", malgrado tutto questo la voce di un tempo riaffiora e "in essa risuona ancora "Ja Ja, Heil, Sieg", e "Ja Mein Führer Ja"". Una valutazione forse troppo severa, che rivela tuttavia come a oltre cinquant'anni di distanza le ferite della coscienza tedesca ancora stentino a rimarginarsi.

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