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Ambizioso, ma senza nessun nerbo. Vuoto come altri che si rifanno a questo tipo di approccio letterario. Proprio cannibali. Non resta niente.
Aldo Nove o si ama o si odia. Non ci sono vie di mezzo.Questo è il mio preferito in assoluto,anche però "Amore mio infinito" ci va vicino. Questa opera la reputo veramente geniale, non solo per come è scritta, così spontanea e simile alla parola dei bambini, ma anche per i collegamenti tra oggetti/luoghi/avvenimenti (es.omino bialetti-ritratto di donna velata-la folla di malnate)assolutamente originali e nello stesso tempo comuni e reali a tutti quelli che hanno vissuto quegli anni. In molti storcono il naso alla sua scrittura, specie quei saccenti che vogliono grammatica e parole arcaiche a tutti i costi,ma a me piace così com'è questa scrittura, perchè è spontanea e sincera... ed è per questo a mio avviso che si ama.
Altri raccontini artefatti, volgari a tutti costi, che vorrebbe essere provocatori ma risultano solo inutili e noiosi. Era l'ultima chance che concedevo ad Aldo Nove. D'ora in poi non mi farò più ingannare dalle recensioni entusiastiche di certa critica che crede che basti una pseudo-ideologia sbandierata con presunzione e supponenza a fare un grande libro.
Recensioni
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Le impressioni principali che suscita l'ultimo libro di Aldo Nove sono due. Una è di compiacimento; l'altra, di rammarico. La prima: con ogni probabilità, questo è Aldo Nove al suo meglio. La seconda: purtroppo.
Non vorrei essere frainteso. Nove è e rimane comunque uno degli scrittori più ragguardevoli in circolazione oggi in Italia. Woobinda (1996) - poi Superwoobinda (1998) - ha costituito una delle poche vere novità dell'ultimo decennio, e le doti dimostrate allora trovano in questa prova sicure conferme. Certo, si tratta di un'opera dal respiro breve, ma formalmente, direi quasi istituzionalmente breve: e non tanto per le dimensioni contenute (una cinquantina di brani in meno di duecento pagine), quanto per l'esiguo spazio che separa l'invenzione estrosa, il guizzo visionario, il frammento memoriale, dalla sottesa moralità ("Pioveva forte, avevo dieci anni e una tremenda voglia di rinascere in un mondo diverso da questo"). Piuttosto che un narratore autentico, Nove è un prosatore e un moralista, che ha la sua arma migliore nella capacità di personificare punti di vista ingenui. A prender la parola nei suoi libri sono di norma personaggi "bassi", ed è sempre molto chiara la differenza tra caratteri rozzi, perversi, biasimevoli (Woobinda, appunto) e semplici sprovveduti o naïf, capaci di illuminazioni precluse a figure più consapevoli e adulte: qui, con una trasparente compromissione autobiografica che non lascia dubbi sulla chiave in cui il libro chiede d'esser letto.
La più grande balena morta della Lombardia è una sequenza di flash e riflessioni di un bambino che alla metà degli anni settanta vive in una cittadina in provincia di Varese. Nessun ordinamento riconoscibile, né tematico, né temporale: i brani si susseguono liberamente, senza progressione cronologica e senza indicazioni esatte sull'età attuale del protagonista-narratore Anto. L'eloquio rivela immediatamente, vistosamente, il proposito di rappresentare l'infanzia dall'interno ("Ugo era un uomo grosso del continente marito di Maria. Era l'uomo più forte della terra e abitava in fondo alla strada. Maria era sorda e gridava Uuuuuuuuuuuuuuuugooooo, dove seiiiiiiiiiiiii e Ugo rispondeva: Soooooooooooono qui, Maria. / Poi gli è venuto un tumore e è morto"); dall'interno, anche, di un universo linguistico ("L'album delle parole che non si possono dire piace molto ai bambini. Le guardano di nascosto le dicono piano se le scambiano tra loro. Una di queste è puttana, un'altra faccia di coglione che sei"). Alcuni brani di sapore (per intenderci) realistico possiedono una notevole grazia, e riescono davvero a evocare uno sguardo infantile sul mondo (Sardegna Sardegna, Faccia di Giuseppe, Nessuno va a trovarli mai). Lo stesso dicasi delle pagine che inscenano ossessioni e paure: come il racconto eponimo, dove la carcassa d'un cetaceo esposto in uno zoo riprende vita e si divora l'universo intero, o I Ricchi e Poveri, con i quattro del noto gruppo che, trasformatisi in mostri durante un'esibizione al palio delle contrade, sbranano ingurgitano risucchiano tutti quanti gli spettatori. L'ansia di divoramento circola un po' ovunque; sì che la madre a un certo punto deve rassicurare Anto sul fatto che i dinosauri sono definitivamente scomparsi, in seguito alla caduta d'un meteorite. Con un certo anticipo sui tempi, a dire il vero (lo storico articolo su "Science" di Luis e Walter Alvarez è del 1980, la scoperta del cratere Chicxulub nel golfo del Messico del '91), ma perché sottovalutare le risorse di una mamma di Viggiù?
Il punto è un altro. Nove contraffà con sagace padronanza espressiva una voce infantile, riproducendo non solo l'impuntarsi su certe parole o schemi frasali, secondo un gusto dell'iterazione e della ridondanza che è proprio di quell'età, ma soprattutto il saltabeccare tra fantasticherie e malinconie, tra ricordi pensosi e fissazioni visionarie, tra l'osservazione di un qualunque dettaglio quotidiano e l'intuizione di grandi questioni o dilemmi profondi: tanto che a volte riesce felicemente a emulsionare un fanciullino pascoliano con il Quino di Mafalda (Il gatto orrendo). Tuttavia, a conti fatti, di cose da raccontare non ne ha poi gran che. E quando ci fa provare l'emozione di trovare sulla pagina di un libro Einaudi i nomi dei giocattoli o dei giornalini di quando eravamo bambini anche noi, compie un'operazione non molto diversa da quella di un Fabio Fazio che invitava a Quelli che il calcio l'interprete (cinquantenne, ormai) di Pippi Calzelunghe. Vero è che anche il Michele Mari di Tu, sanguinosa infanzia a volte partiva di lì, dalle banali reliquie d'una memoria collettiva: ma poi andava ben oltre, per sua fortuna, e nostra.
Il problema - il pericolo - non riguarda nemmeno tanto Nove, forse: quanto una generazione intera che, dopo aver nutrito un'ingenua fiducia nelle proprie capacità di cambiare il mondo, ora cede un po' troppo spesso e un po' troppo volentieri alla tentazione di ripensarsi in chiave ironico-nostalgica, di rappresentarsi in un'indulgente luce di elegia che qualche lampeggio di violenza o cattiveria non basta a riscattare. È un gioco che può piacere, per un poco, che diverte, anzi: ma è bene interromperlo in fretta. Primo, perché espone al rischio del troppo facile, anche sul piano della scrittura: valga ad esempio una certa maniera di rimboccare il periodo su se stesso ("A Viggiù, negli anni Settanta quasi tutti facevano i contrabbandieri perché era un modo per guadagnare tanti soldi in più rispetto a quello che si sarebbe guadagnato senza fare il contrabbandiere, cioè poco"). Secondo, perché quando si comincia a invecchiare, raccomandano concordi i dietologi, è bene limitare il consumo di zuccheri; e niente aumenta la glicemia quanto gli indugi sentimentali sul passato.
E poi diciamolo, essere stati bambini non è un merito per nessuno. Può divenire, a certe condizioni, una risorsa: ma per attingervi occorre un diverso sforzo di memoria, e di fabulazione. Occorre, insomma, andare oltre Woobinda. È possibile? Aspettiamo fiduciosi. Nel frattempo, il recensore sarebbe grato a chi gli sapesse dire se, per caso, a un qualche talk show viene invitato il sergente García... Ma no, Henry Calvin dev'essere mancato, temo, prima ancora che Aldo/Anto cominciasse a pensare a Cicciolina. Come non detto: scherzi della memoria. Ma, appunto, la letteratura di cui sentiamo il bisogno oggi dovrebbe, fra le altre cose, aiutarci a tenere in ordine le informazioni (non informarci, che non è suo compito): ad assumere attitudini mentali che sventino il rischio di confondere ogni cosa nella melassa cronologica che propina - mai senza secondi fini - tanta parte della civiltà mediatizzata.
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