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(recensione pubblicata per l'edizione del 1985)
recensione di Bertelli, L., L'Indice 1986, n. 3
Con sorprendente tempestività, a pochissima distanza dalla sua pubblicazione in Inghilterra, L'editore Laterza presenta la traduzione dell'ultima opera dello storico americano, trapiantato a Cambridge. Finley raccoglie qui i testi, rimaneggiati e trasformati in capitoli di un'opera complessiva, di conferenze tenute a Belfast e a Copenhagen tra l'80 e l'81. In buona parte i temi sono l'esito di una ricerca che lo storico americano va conducendo da una ventina d'anni a questa parte e i cui risultati parziali sono già patrimonio comune, anche se talora contestato dalla storiografia antichistica. E, come si è verificato in passato all'apparire dei suoi lavori sulla democrazia antica, sulla schiavitù e l'economia del mondo classico, anche con quest'ultima sua opera F. non mancherà di suscitare vivace dibattito non solo in virtù della sua eterodossia metodologica, ma anche per il carattere di libro di battaglia che egli conferisce al suo lavoro volendo insieme rispondere a critiche rivoltegli per certe sue passate posizioni e passare a un vaglio critico, talora tagliente, interpretazioni tradizionali e autorevoli della politica antica.
Già la stessa definizione di "politica" - o meglio di politici nell'accezione politologica anglo-americana - suonerà inconsueta a un pubblico abituato a concepire l'area della politica antica inquadrata storicamente entro precisi assetti costituzionali e istituzionali, con l'attenzione rivolta soprattutto alle personalità dei leaders e ai movimenti o gruppi politici da essi rappresentati. Per F. infatti la 1/2politicaÈ è qualcosa di più eterogeneo e diffuso in quanto è l'insieme di 1/2scienza e arte del governoÈ, di "attività politica", di 1/2modi, formali ma anche informali, in cui si esplica un'attività di governo e se ne determinano i processi decisionaliÈ, nonché dell'1/2ideologia che sta dietro all'operato di un governoÈ (p. VII). Se si tien conto poi che di queste pratiche della politica F. intende occuparsi 1/2in termini di mutuo confrontoÈ tra Grecia e Roma, non gli si può dar torto se lamenta l'assenza di una trattazione di "questo tema" che 1/2abbia le dimensioni di un libroÈ: infatti è difficilmente immaginabile la mole di un tale libro che affrontasse l'argomento nella prospettiva storiografica tradizionale con adeguata analisi dei documenti e delle singole situazioni storiche.
Le delimitazioni in ordine ai contenuti e alle aree cronologiche che F. introduce in questa quasi sterminata materia, non conseguono tanto dall'ovvia consapevolezza dei propri limiti di competenza, quanto da una scelta di metodo che ha un duplice risvolto, polemico e insieme ideologico. Ciò che F. intende per politica non si identifica con la prassi e l'ideologia politica di qualsiasi aggregato statale, ma soltanto con quella attuabile in 1/2stati, in cui si perviene a decisioni vincolanti attraverso la discussione e il dibattito e infine al votoÈ (p. 78). Perciò regimi monarchici e tirannici - e altre formazioni di tipo 1/2etnico-tribaleÈ - in Grecia, e tutta la storia politica di Roma imperiale vengono programmaticamente esclusi da F. dal quadro della ricerca, in quanto impolitici nella misura in cui è impolitico il principio autocratico che li domina (quod principi placuit legis habet vigorem a Roma) oppure sono considerati "estranei al tessuto della polis" (le tirannidi greche).
Dato lo stretto ed essenziale legame tra 1/2politicaÈ e momento collettivo della decisione, è ovvio che la categoria storica di "mondo antico" la cui genericità di impiego era stata altrove imputata a F., subisca un'ulteriore delimitazione cronologica all'interno della quale soltanto è adattabile quella formulazione della "politica" in senso stretto: perciò il "mutuo confronto" tra Grecia e Roma avrà come limiti rispettivamente la metà del VII secolo a.C. e le conquiste di Alessandro Magno, per la Grecia, il periodo tra V e I secolo a.C. per Roma. Questa rigida demarcazione dei confini cronologici della "politica" non ha più nulla di sorprendente se si considera che la scelta del contesto istituzionale nel quale F. pretende di vedere operanti le sue procedure, non deriva dalla natura della prassi politica antica - la quale, per inciso, comportava arte di governo, attività politica formale e informale, processi decisionali di vario tipo anche nei regimi autoritari - ma al contrario dalla netta vocazione liberal dello storico americano, secondo la quale un'attività politica in senso proprio si dà soltanto quando "ogni cittadino ha delle decisioni politiche da prendere" (p. 44) ed è prevista nel sistema la sua partecipazione, più o meno diretta, più o meno efficace, al processo decisionale. Ora da questi postulati derivano alcune conseguenze piuttosto inquietanti. Quello che si vuol contestare non è naturalmente il diritto dello storico a scegliersi il modello di società o di politica che gli è più congeniale, quanto la compatibilità di questa formula della "politica" con la ricerca storica in generale, in quanto F. non limita la validità di essa al solo "mondo antico", ma anzi la deduce dall'esperienza moderna e la ritiene universalmente efficace: sorge infatti la legittima curiosità di sapere come lo storico americano valuterebbe le opere che hanno per oggetto la politica sotto regimi autoritari, come il fascismo, il nazismo lo stalinismo e affini. Storie di fantasmi, forse?
Con riferimento più diretto al campo di indagine scelto da F. gli esiti non sono meno preoccupanti per l'inevitabile - e ulteriore - riduzione dell'orizzonte storico cui la formula può applicarsi: infatti, pur dichiarando preliminarmente di voler prendere in considerazione i regimi più rappresentativi - e meglio documentati - della politica antica (Atene democratica, Sparta, Roma repubblicana), F. è poi costretto a riempire il suo quadro con i dati ben noti di Atene e di Roma nel periodo della repubblica. Il "tradizionalismo" cacciato dalla porta principale rientra per quella di servizio: conseguenza del resto cui era difficile sottrarsi partendo da quel ristretto osservatorio della 1/2politicaÈ.
L'altro aspetto dell'opera che merita attenta valutazione è l'opportunità dell'uso di modelli 1/2idealtipiciÈ sia nella definizione della città-stato, come struttura comune al mondo greco e a quello romano-repubblicano, sia nella classificazione dei suoi elementi fondamentali: questa scelta metodica di chiara ascendenza weberiana, corretta con l'esperienza della politologia americana, era in un certo senso obbligata sia per l'opzione dell'analisi comparata della "politica" in Grecia e a Roma sia per il rifiuto della prospettiva storico-costituzionale. Ma anche questa scelta non va esente da rischi, quali per esempio l'inadeguatezza del modello - ottenuto per estrapolazione dai dati concreti di due realtà politiche così diverse come quella greca e quella romana - quando venga messo a confronto diretto con i fatti singoli, di cui dovrebbe costituire la chiave interpretativa; oppure la sua riduzione a ombra evanescente, poco efficace dal punto di vista ermeneutico, quando il suo compito di struttura omologa deve ricoprire situazioni ed eventi tra loro difformi.
È vero, come sostiene F., che sia in Grecia sia a Roma trova realizzazione l'1/2importante veritàÈ scoperta da Aristotele che la città si regge sulla divisione tra "ricchi" e "poveri" e sul precario equilibrio tra queste due "classi", ed è altrettanto vero che lo stato greco e romano non si identifica n‚ con quello ideale immaginato dalla teoria politica antica n‚ con quello invocato dalla "mistica" statalistica moderna (Wilamowitz, Ehrenberg, ecc.) sotto forma di emanazione dell'interesse collettivo e di ipostasi di una legge super partes: F. rispetto a queste interpretazioni- già del resto ampiamente superate - ha buon gioco sulla scorta delle stesse fonti antiche - Aristotele primo tra tutti - nel dimostrare il carattere conflittuale dello stato antico, il rapporto stretto tra governo e stato e in definitiva l'identità tra stato e 1/2potere della classe di governoÈ (secondo la definizione mutuata da H. Laski). Ma la 1/2struttura sociale... pressoché identicaÈ della città-stato greca e romana si riduce a poco più che uno schema astratto quando F. passa ad esaminare la tipologia degli elementi che la costituiscono. Le classi censitarie esistono certamente sia ad Atene sia a Roma, ma non soltanto le loro rispettive capacità politiche sono profondamente diverse, ma ad Atene si cercherebbe invano qualcosa di paragonabile al patriziato o alla nobilitas romani; così nella sfera del potere non c'è nulla che assomigli all'imperium consolare romano con tutto il suo apparato coercitivo. E in effetti gli unici due esempi che F. indica per dimostrare il carattere di classe della gestione politica antica, il senatus consultum ultimum e la prassi giudiziaria, ben si attagliano alla situazione romana, ma non hanno corrispondenti in Grecia, o almeno in quella Grecia che lo storico ha scelto come suo campo di indagine.
Se F. ha pieno diritto, superando certe sue stesse perplessità passate, di rivendicare l'uso del concetto di classe per descrivere la struttura dello stato antico - sulla scorta di Aristotele, non di Marx, come egli stesso polemicamente sottolinea -, l'omologia si ferma ai caratteri generalissimi, perché nel concreto il rapporto stato-governo-classe risulta radicalmente diverso là dove le classi a confronto o in conflitto per il potere hanno eguale titolo ad intervenire nella politica, come ad Atene, e là dove il sistema sociale si fonda sulla rigida e universalmente riconosciuta separazione di ordines, come a Roma.
La bipolarità del modello 1/2idealtipicoÈ, in cui di volta in volta viene privilegiata o la componente romana o quella greca, diventa ancora più evidente nei due capitoli dedicati all'1/2autorità e patronatoÈ (c. II), in cui F. ricerca la 1/2base materialeÈ del potere politico, e alla 1/2partecipazione popolareÈ (c. IV). Nel primo caso è evidente la predominanza dello schema romano nell'interpretazione dei comportamenti politici dell'élite: infatti già nell'impostazione del problema - l'attesa 1/2popolareÈ di vantaggi materiali da parte dei leaders - traspare il rapporto tipicamente romano tra classe politica e governati. Ad Atene la 1/2politica imperialisticaÈ, il sistema delle liturgie, la stessa concessione di paghe per gli uffici pubblici, solo con un certo sforzo si possono adeguare alla tipologia del patronato: F. infatti non sottolinea abbastanza che da queste forme di "patronato verso la comunità" è del tutto assente il carattere fondamentalmente privatistico della corrispondente pratica romana, mentre al contrario nella prassi ateniese si esprimeva direttamente la volontà politica della maggioranza del demos - e non sempre a spese delle classi più ricche (questo non è infatti il caso delle paghe per le funzioni pubbliche nel V secolo) - , anche se l'iniziativa poteva essere assunta da questo o quel leader politico. Tant'è che all'indebolimento della effettiva capacità politica del demos ateniese nel IV sec. corrisponde una sempre più accentuata fuga dalle 1/2responsabilità socialiÈ della classe liturgica.
Sul tema "partecipazione popolare" è quasi ovvio che facies greca (ateniese) del modello sia prevalente su quella romana: anzi in questo caso la comparazione tende più a sottolineare le differenze che le analogie tra i due sistemi, anche se appare un po' estremistica la valutazione di F. sulla possibilità concessa al populus romano di esprimere la propria influenza non attraverso i meccanismi formali della politica (comizi), ma soltanto attraverso tumulti e sommosse. Infatti non mancavano neppure a Roma anche altre forme di aggregazione 1/2pacificaÈ del consenso e di manifestazione della pubblica opinione (festività, riunioni, trionfi ecc.). Nel capitolo dedicato alla 1/2politicaÈ (III) F. descrive le occasioni offerte dai due sistemi politici agli aspiranti leaders sulla base del postulato che la 1/2leadership politica [era] monopolizzata dal settore più ricco della cittadinanza durante tutta l'era della città-statoÈ (p. 95): a parte l'incontestabile verità dell'assunto, anche su questo punto F. deve poi ammettere che le diversità di dimensioni in cui si esplica l'attività politica in Grecia e a Roma comportano più varianti che costanti nei due sistemi.
Le strutture e i comportamenti politici analizzati nei primi quattro capitoli convergono verso un centro ideale costituito dalla descrizione del conflitto politico (c. V). Dicotomia di status e di classe, carattere competitivo della gara politica all'interno dell'élite, partecipazione e aspettative popolari, sono gli ingredienti fortemente instabili su cui si innesta il conflitto politico-sociale. In queste pagine magistrali per chiarezza e penetrazione F. non solo rivela quanto sia ampio lo spettro di questa realtà endemica alla città-stato - dai mutamenti costituzionali introdotti per via legale alla lotta aperta tra fazioni con spargimento di sangue -, ma dimostra anche la naturalità del fenomeno all'interno della struttura sotto il duplice profilo della rivalità permanente tra i membri dell'élite politica, che tendevano non tanto a superarsi quanto ad eliminarsi a vicenda (e qui F. fa buon uso della lezione di J. Burckhardt), e di aspirazione del demos/ populus a maggiori vantaggi economici e ad una più ampia presenza politica. Ed è proprio attraverso questo carattere 1/2naturaleÈ della polis antica che si può misurare la differenza di reattività del sistema ateniese da quello romano: la democrazia in Grecia - cioè ad Atene - non fu sconfitta dal conflitto interno che, pur con manifestazioni tutt'altro che irrilevanti, fu imbrigliato e regolato per un lungo periodo, mentre a Roma gli effetti ultimi del conflitto interno coincisero non solo con 1/2la fine della partecipazione popolare, ma della politica stessaÈ (p. 180), ovviamente la 1/2politicaÈ in senso finleyano.
L'ultimo capitolo dedicato all'1/2ideologiaÈ (VI) dimostra ancora una volta come il modello possa diventare una specie di prigione per lo storico. Ciò che F. va inseguendo nella letteratura politica antica è una discussione teorica - non ideologica o retorica - dei concetti di "legittimità" dell'ordinamento politico e del correlato di "obbligazione politica", problema che è diventato centrale nella cultura politica dal medioevo in poi. Il modello di formalizzazione teorica è quello fornito dalla trattatistica sull'oggetto da Guglielmo di Occam fino a Rawls. E naturalmente in questa forma non può far altro che lamentarne l'assenza nel pensiero antico. Ma che le due domande inerenti a questa problematica - perché un cittadino debba ubbidire alle leggi e chi abbia il diritto di esercitare l'autorità - non abbiano trovato nella teoria antica risposte comparabili a quelle elaborate con altri strumenti e in altre situazioni storiche, è una conclusione imputabile non ad una supposta debolezza del teorici o generici pensatori politici antichi, quanto all'incompatibilità dello strumento di misura impiegato nella valutazione di quell'eterogeneo coacervo di affermazioni ideologiche (secondo il giudizio di F.) enunciate in sede di riflessione politica antica sul tema dello stato giusto e del cittadino ossequiente alle leggi.
Di fronte ad un'opera di F. il dissenso e la polemica, che non siano soltanto pure reazioni di parte, sono in un certo senso le risposte obbligate alla sfida sempre implicita nella sua rappresentazione dell'antico: il dibattito che egli sa suscitare è il riconoscimento maggiore che si possa fare all'importanza del suo lavoro in quanto dà la misura del coinvolgimento e dell'attrazione sollecitati dalle sue prospettive metodologiche e dalla quantità di problemi ancora irrisolti che solleva. Anche la polemica più prevenuta non può sottovalutare il fatto evidente che con questo libro F. liquida molti idola tribus ancora operanti nella storiografia politica antica e che la futura ricerca sulle pratiche politiche in Grecia e a Roma dovrà fare i conti con i risultati e con le intuizioni di F. in merito alla 1/2politica nel mondo anticoÈ.
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