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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2011
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un libro che presenta brevemente l'antropologia, partendo dal concetto stesso di studio dell'uomo, definendolo come un'esplorazione dei confini dell'umanità. L'autore prende poi in considerazione concetti di umanità diversi portando esempi di come le varie etnie concepiscono l'essere umano e l'essere non umano, quindi cosa ci rende umani e quali rituali sono necessari (riti di iniziazione) per essere considerati umani. La costruzione dell'umanità passa spesso attraverso violenza e dolore per rendere le persone semplicemente "più belle", quindi viene analizzata l'idea di moda antropo-poietica ed elencati tutti quei metodi di manipolazione corporale (dalla toilette ai tatuaggi all'infibulazione) che portano l'essere umano non completo a un tipo di incompletezza diversa (costruire umanità significa tagliare la disumanità spesso in modo disumano). L'antropologia è, dunque, un'analisi e un confronto di come gli esseri umani concepiscono loro stessi e di cosa (e come) sono disposti a fare per essere accettati dalla loro società.
Bellissimo libro,molto istruttivo.. io che amo l'antropologia, ti da proprio una visione generale della materia.. Lo consiglio vivamente perché scritto bene e molto interessante!!
Ho acquistato il libro per un esame e l'ho trovato interessantissimo e ben scritto, oltre che avvincente. L'autore tratta le mode, le usanze, i rituali, l'antropo-poiesi, il concetto di modernità e formazione di umanità artificiale vs condizione di umanità data dalla natura / da Dio, citando filosofi quali Bacone, Cartesio, Kant. Credo si addica sia agli "addetti ai lavori", sia ai neofiti, sia a chi, appunto, volesse approcciare questa disciplina.
Recensioni
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recensioni di Moravia, S. L'Indice del 2000, n. 11
Talvolta il valore di un libro è inversamente proporzionale alle sue dimensioni, e anche al modo in cui si presenta sotto il profilo editoriale. Nel nostro caso, la Prima lezione di antropologia di Francesco Remotti appare un testo assai sintetico, ed è incluso in una collana che sembra proporre opere di carattere essenzialmente introduttivo.In realtà il libro va oltre tale orizzonte, e offre un'intensa riflessione teorica sull'essere stesso dell'antropologia culturale. Questa disciplina si occupa, è noto, dello studio dell'uomo. Ma di quale uomo? Di tutti gli uomini in quanto tali, oppure solo di alcuni di essi - i "primitivi", i "selvaggi", gli "altri"? E di quali aspetti e caratteri dell'uomo? Vari anni fa, un illustre studioso ha affermato che l'antropologia è una sola: è l'antropologia fisica. Una dichiarazione tanto perentoria quanto discutibile. Forse è un peccato che Remotti abbia dedicato solo qualche cenno alle concezioni operanti secondo questa prospettiva.In effetti esse sono oggi estremamente potenti.
Per Remotti invece non ci sono dubbi: è necessario cogliere gli aspetti anche socio culturali dell'essere/agire umano. Non meno indispensabile gli appare l'oltrepassamento di un territorio antropologico abitato solo dai "diversi".L'antropologia deve occuparsi del nostro mondo non meno che del mondo altro. Occorre anzi domandarsi perché l'antropologia tradizionale abbia tanto privilegiato lo studio di loro rispetto allo studio di noi. Forse perché questa scelta preservava il modo d'essere di noi da indagini capaci di compiere scoperte spiacevoli sul nostro conto?
A un altro livello ci si potrebbe anche chiedere perché sia nata l'esigenza di costituire una scienza come l'antropologia.In fondo, già altre pratiche culturali forniscono un cospicuo contributo alla conoscenza dell'uomo. A quali ulteriori traguardi punta questa disciplina? Probabilmente l'invenzione dell'antropologia risponde a una somma molteplice di ambizioni: di sapere in modo rigoroso su che cosa si basa l'essere dell'ente uomo; di vedere confermata o meno l'esistenza di norme universali del mondo umano; di studiare i meccanismi di funzionamento dell'uomo in quanto soggetto socio-culturale. In connessione con gli scopi appena detti opera anche il disegno di controllare e governare il mondo altro.
Ma ciò che preme di più a Remotti è di riflettere sulla natura dell'uomo in rapporto ai suoi modi di vivere. Da questo punto di vista egli sottolinea soprattutto l'istanza agente dell'essere umano.Tale agire attesta la dimensione culturale dell'essere umano: si agisce quasi sempre in relazione all'ordine della cultura. Per molti aspetti il termine che meglio caratterizza il pensiero di Remotti è "antropo-poietico". Esso esprime tra l'altro l'istintiva vocazione umana a fare, a operare in stretto rapporto col mondo (a cominciare dal mondo naturale). L'ambivalente essenza dell'uomo è proprio questa. Da una parte esso agisce sollecitato da bisogni inscritti nella sua natura. Dall'altra si configura come una serie indefinita di interventi "artificiali" entro il corpo stesso della naturalità. L'"artificio" è impiegato nei modi più diversi. talvolta serve a distinguere ciò che, sotto vari aspetti, appare unito e congiunto. Altre volte serve a organizzare il complesso mondo che ci circonda.
Tra le considerazioni più stimolanti di Remotti a questo riguardo v'è quella per cui non sempre la Cultura-Artificio si oppone alla Natura. Spesso la prima dichiara di operare non già per affermare se stessa, bensì per cogliere la vera natura della realtà, che le più diverse situazioni ed evenienze, i più diversi usi e costumi hanno celato. Sotto un altro profilo, l'artificio (la cultura) opera nei luoghi e nei modi più impensati. Remotti ce ne offre un ricco catalogo. Dai tatuaggi al piercing, dagli interventi sugli organi genitali alle modifiche corporee realizzate dalla chirurgia plastica. Uno dei campi più affascinanti dell' antropologia sembra essere proprio il coglimento e l'interpretazione delle cause, dei desideri profondi che spingono tanti uomini a modificare la natura nelle direzioni più diverse.
Un altro grande problema affrontato da Remotti si collega in più modi a quanto si è appena detto. Riassumiamolo così. La rivisitazione dell'antropologia culturale moderna attesta l'esistenza di due Grandi Programmi, costituiti da una determinata interpretazione dell'uomo e della cultura, nonché da una correlativa epistemologia ed etica. Per il Primo Programma, uomo e cultura sono organizzati secondo leggi universali-essenziali. In linea di principio esse si possono scoprire in tutte le implicazioni cognitive e morali che ne conseguono. Il Secondo Programma enfatizza invece l'irriducibile varietà, individualità e modificabilità del paesaggio antropologico in cui viviamo.
Entrambi i Programmi hanno pregi e difetti. Il Primo delinea un'immagine rassicurante dell'essere umano, ma rischia di approdare a una concezione statica, uniforme dell'universo dell'uomo. In essa, non solo le differenze vengono definite in rapporto a determinati canoni a priori, ma sono anche considerate secondarie rispetto alla fondamentale unità del genere umano. Spesso le minoranze generatrici di tali differenze tendono a essere combattute e perseguitate. Quanto al Secondo Programma, esso valorizza sì l'infinita varietà degli uomini, ma in certi casi i suoi fautori manifestano un grande disagio. È quando incontrano pratiche di vita che, oltre a essere diverse, appaiono anche barbare e crudeli. Che fare, a quel punto? Remotti nota acutamente che i seguaci del Secondo Programma cercano di evitare giudizi di valore e, tanto più, trasformazioni ab externo delle pratiche in questione, impegnandosi piuttosto nell'analisi delle funzioni comportamentali realizzate in rapporto a determinati principi.
Il primo merito di Remotti è di non chiudere gli occhi dinanzi alle questioni or ora accennate: il problema esiste. Il suo secondo merito è di esprimere con chiarezza la propria scelta di campo, che va nella direzione del Secondo Programma. Egli non crede nelle Identità paradigmatiche, nelle Essenze universali, nei Valori assoluti. Tutto è prodotto dall'attività antropo-poietica dell'uomo - che occorre capire più che giudicare. Non per questo, però, Remotti considera perfetto il Secondo Programma. Per lui è vero che le società persuase di disporre di un modello di umanità vero e indiscutibile sono quelle che "più facilmente parlano di disumanità, soprattutto nei confronti degli altri". Ma è altrettanto vero che anche la più liberale delle società produce selezioni e rifiuti culturali che penalizzano in più modi intere componenti di tali società.
Stando così le cose, la prima scelta da fare è respingere ideali giudicati universali e perfetti perché naturali. In realtà, valori universali-perfetti non esistono.Occorre anzi fuoriuscire dal gioco bipolare costituito dalla Perfezione vs. il Caos o il Nulla. Ma se tutto ha un suo lato d'ombra, non ogni scelta equivale a un'altra scelta. Si tratta, allora, non tanto di rifugiarsi in un comodo relativismo dove tutto è a vario titolo accettato, quanto di comprendere quali sono i comportamenti in grado di aumentare il tasso di consapevolezza antropologica e diminuire quello di "incompletezza" dell'uomo nel rapporto sia con se stesso sia con i propri simili. L'errore da evitare è quello di radicalizzare le differenze, di subire la fascinazione di certi universali - siano pure quelli del Buono e del Giusto. Prima di arrivare a questi lontani (e improbabili) universalia c'è ancora tanta strada da percorrere. Una strada lungo la quale incontreremo infinite occasioni di saggiare i nostri convincimenti e di sviluppare così nuove capacità di comunicazione interculturale. È poco? No. A me sembra moltissimo.
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