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Anno edizione: 2006
Anno edizione: 2006
Anno edizione: 2013
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la finissima analisi psicologica è messa in ombra dalla prolissità. peccato, un centinaio di pagine in meno ne avrebbero fatto un ottimo libro.
6 racconti che descrivono 3 diversi momenti della vita di due diverse coppie e famiglie i Derdon (Rose e Hubert) e i Baggot (Delia e Martin) e che, anche non in ordine cronologico, ripercorrono "il principio dell'amore", la vita coniugale, la fine della vita e ciò che resta dopo la morte di uno o di entrambi i componenti della coppia. Fin qui nulla di particolare. Se non fosse che Maeve Brennan focalizza l'attenzione sui particolari scomodi, sulle crude verità: donne che temono i mariti solo perché hanno ricevuto un'educazione aberrante; mariti che amano soltanto la capacità delle mogli di accudire loro stessi e la casa (e soltanto di questo sentiranno la mancanza quando loro non ci saranno più); appetiti, istinti d'orgoglio e di coraggio che, seppure marcati in gioventù, velocemente sbiadiscono con il trascorrere della vita; famiglie poste sotto la lente di ingrandimento da ogni genere di parenti con gelosie; battibecchi e pettegolezzi; matrimoni accaduti per capriccio o perché ad un certo punto della vita ci si deve accontentare di quello che si è trovato, mentre la vita leviga le passioni e la solitudine dona pace e silenzio. Un quadro desolato, narrato con feroce ironia, eppure non ho sorriso mentre lo leggevo, anche se l'ho trovato stupendo.
Racconti bellissimi. Poche volte l'immersione nella lettura mi aveva portato così in profondità nella vita di altre persone, tanto che il termine della lettura assomigliava a un risveglio da un lungo sogno.
Recensioni
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Torna, ancora una volta nelle edizioni della "Bur" rinnovata, l'irlandese Maeve Brennan, che aveva colpito nel 2005 le fantasie dei lettori, e dei critici, grazie allo splendido profilo che la ritraeva in copertina. Astutamente la nuova raccolta propone una sua ancora più elegante immagine e un'interessante prefazione di William Maxwell, illustre editor del "New Yorker", talent scout ante litteram e grande amico della stessa Brennan. Come se non bastasse, lo strillo in copertina riporta una frase celebrativa di Alice Munro, scrittrice di soli racconti (come Brennan), che negli ultimi anni ha conquistato in Italia una grande notorietà.
Una volta tanto le cose si tengono insieme: è evidente che a una narratrice di relazioni non poteva sfuggire Il principio dell'amore. Non solo perché i racconti indagano nelle articolazioni di due matrimoni, non solo perché mettono in scena i movimenti e il mistero di due donne, di due mogli, Rose e Dalia, incapaci di darsi un'identità al di fuori del fazzoletto di terra coltivato davanti alle loro case, e infine non solo perché entrano nel monologare spietato dei loro rispettivi mariti, ma soprattutto perché la linea della scrittura segue fedele, piatta e come inerte, lo svolgimento delle loro vite. Se al principio, se nel momento della decisione, nel ricordo sembra esserci stata una ragione perché le vite di queste coppie si unissero, nel tempo si sono senz'altro affievolite. Le reciproche fiducie tradite da volontà contrastanti e da un uso ostinato del silenzio. Basti pensare al goffo tentativo del marito di Rose che, per consolarla della mancanza del figlio (diventato prete), le porta una sera a casa un ingombrante giacinto in boccio. O si vada all'episodio in cui il marito di Dalia, la sera del dodicesimo anniversario di matrimonio, rompe accidentalmente il vaso di fiori che la moglie aveva sistemato nella camera dove da tempo si era rifugiato per restare solo. Avvenimenti minuti, minutissimi, che tanto piacerebbero a Alice Munro, appunto, che però non servono a sovvertire la direzione della vita. Donne e uomini privi di destino, quasi incapaci di sofferenza, che appena percepiscono la presenza altrui da una porta aperta, o chiusa per sempre. "Come poteva rimpiangere qualcosa che non riusciva a definire, o dolersi per una cosa scomparsa senza lasciare tracce? Era proprio così: lei non aveva lasciato tracce".
Scritti tra il 1962 e il 1972 e pubblicati sul "New Yorker", i racconti di Maeve Brennan stupiscono per la convenzionalità con cui sono scritti, per la scelta del tutto indifferente agli sperimentalismi. Grazie a questa loro speciale qualità di essere fuori moda, fuori tempo, acquistano la grazia dell'inattualità. E illuminano il lettore su una personalità di intellettuale, nata a Dublino ma trasferitasi assai presto in America, che svolse una lunga attività di giornalista di moda e di cultura, prima per l'"Harper's Bazar" e poi per il "New Yorker", in un tempo in cui, fra le recensioni non firmate, comparivano anche quelle di W.H. Auden.
Camilla Valletti
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