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I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri - Carlo Capra - copertina
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I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri
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I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri - Carlo Capra - copertina
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Descrizione


Il milanese Pietro Verri è stato uno dei massimi esponenti della cultura illuministica italiana: economista, letterato, uomo di governo, insieme al fratello Alessandro, all'amico Cesare Beccaria e ad altri giovani milanesi diede vita all'Accademia dei Pugni e alla rivista "Il Caffè" che, sebbene sia durata solo due anni (1764-1766), rimane come la più significativa espressione del rinnovamento culturale dell'età dei Lumi. A questa figura cardine della cultura italiana Capra ha dedicato la presente biografia, frutto di sei anni di lavoro.
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<p>"Collezione di testi e di studi - Storiografia" - Volume in copertina rigida, 631 pagine con indice delle opere e dei nomi in chiusura. Copia ottima, poco o mai frequentata. Spedizione in 24 ore dalla conferma dell'ordine. </p>.

Dettagli

2002
648 p.
9788815084149

Voce della critica

Davvero viviamo in tempi bui. Tempi nei quali il comune senso del pudore storiografico sta andando, o è ormai andato, a quel paese come obsoleta bacchettoneria di bigotti e fastidiosi sacerdoti di Clio. Le regole dell'arte sono oggi allegramente ignorate, vilipese, disprezzate: è l'esatto contrario di ciò che accade nella splendida biografia scritta da Carlo Capra, dove quelle regole sono rigorosamente osservate e messe a frutto con ammirevole perizia.

Su Pietro Verri, figura importante dell'Illuminismo italiano (e non soltanto italiano), si sono venuti accumulando, negli ultimi anni, saggi, libri, convegni, e dello stesso Verri si sono pubblicati testi tratti dall'enorme quantità di materiali inediti che ci ha lasciato. Capra, che in questo fervore di ricerche ha avuto un ruolo di primo piano, non si colloca tra gli spensierati e insieme sussiegosi adepti del postmodernismo che, quando i documenti scarseggiano, si abbandonano a salti di gioia perché possono dispiegare la loro impareggiabile genialità di iperinterpreti. I copiosi documenti che aveva a disposizione (ma i documenti bisogna anche cercarli, ed egli lo ha fatto con tenacia e pazienza), Capra li ha considerati non un impaccio a divagazioni ermeneutiche, ma un tesoro cui attingere con oculato criterio. All'ampiezza documentaria si accompagna il rispetto del documento, il che significa vigile attenzione a evitare forzature e arbitrii in sede interpretativa, nonché rifiuto di quella "voglia di sistemizzare" da cui invitava a guardarsi Alessandro Verri in un passo che si legge nella prefazione e che tutti dovrebbero imparare a memoria. Ancora: "per non separare l'autore dalla sua opera" Capra si è attenuto (con mia profonda soddisfazione, ma certo con scandalizzato orrore degli impavidi campioni dell'"anacronismo creativo") all'ordine cronologico. Vogliamo dare un nome alla somma delle caratteristiche di questo volume? Propongo "positivismo". Sono convinto che il positivismo nella versione di Capra vada valorizzato con fermezza e caldamente raccomandato sia a chi procede errabondo al di qua del métier d'historien sia a chi tale métier s'illude di aver superato o oltrepassato.

Capra, come egli stesso ci dice, è stato affascinato soprattutto dall'uomo, ma - aggiungo io - nella sua narrazione si intrecciano sapientemente piani diversi. Orgoglioso, indipendente, ansioso di primeggiare, teso a raffigurarsi come virtuoso e disinteressato, incline ad amareggiarsi e risentirsi quando pensava che le sue qualità non ottenessero adeguati riconoscimenti: questo il Verri che Capra ci presenta senza cedere a tentazioni apologetiche (pur nell'indubbia simpatia per il personaggio), e non senza evidenziare sfaccettature e contraddizioni. Non manca la vita privata, e se talvolta c'è forse qualche dettaglio di troppo, Capra non indulge a una petite histoire che, riguardo al Settecento, sembra tornare di moda. Fatti privati, ma connessi con problemi dalle molteplici implicazioni di cui si discuteva in tutta Europa, furono il matrimonio con la nipote Maria Castiglioni e l'educazione della figlia Teresa. Capra individua acutamente nel cosiddetto Manoscritto per Teresa "una tensione irrisolta tra utopia e realtà", tra istanze innovatrici sollecitate dalla ragione e adattamento alle convenzioni cui era inevitabile che le donne si sottomettessero; ed è osservazione esatta quella secondo la quale "è e rimarrà estranea all'orizzonte mentale del Verri, come d'altronde di Rousseau, ogni idea di parità tra i sessi e di emancipazione femminile".

A me pare, tuttavia, che non sarebbe stato inutile soffermarsi su taluni aspetti del dibattito che si svolgeva, negli anni settanta-ottanta, intorno alla famiglia e alla donna. Lo stesso atteggiamento di Verri ne sarebbe stato meglio caratterizzato. Quando Verri permetteva alla figlia di leggere romanzi (a patto che fossero accuratamente selezionati), egli volgeva le spalle ai molti, anzi moltissimi, secondo i quali la lettura dei romanzi non poteva che avere effetti perniciosi sulle donne, facilmente impressionabili e pronte a crearsi un mondo fittizio che le distoglieva dai doveri domestici; quando invece esortava Teresa a comportarsi da "eroina" - cioè a sopportare con rassegnazione - in caso di infedeltà del marito, egli si allineava alle posizioni più conservatrici, che erano anche quelle maggiormente diffuse. La decisione, poi, di eliminare le fasce e di optare per l'allattamento materno era l'applicazione di precetti instancabilmente ripetuti - pur con modesti successi a breve scadenza - in una sterminata letteratura a sua volta espressione di un'impetuosa ondata igienista. Anche altrove sarebbe stata desiderabile una prospettiva più larga, magari sacrificando qualche citazione e qualche notizia non strettamente necessaria. Mi limito a ricordare che se nelle Meditazioni sulla economia politica (1771) Verri si dichiarava favorevole all'addensarsi della popolazione nelle città, un cospicuo filone (nel quale spicca Rousseau) denunciava i guasti inerenti alle città-formicai.

Sarebbe però ingeneroso insistere su ciò che manca, o è rapidamente accennato, in un libro che tanto contribuisce ad arricchire e rinnovare le nostre conoscenze su un personaggio che ci viene rivelato nella sua tormentata umanità, nella sua ultraventennale carriera di funzionario, nella sua multiforme produzione di scrittore. Capra ricostruisce meticolosamente, ma non prolissamente né aridamente, l'attività riformatrice di Verri, segnata da periodi di alacre e persino massacrante impegno e periodi di disillusa stanchezza. Periodi, questi ultimi, in cui affioravano tratti di misantropia, ma che stimolavano anche una più riposata riflessione su temi economici, morali, storici, come testimoniano opere notevoli della cui genesi e del cui itinerario compositivo veniamo puntualmente informati. Tenace, ad onta di dubbi e ripiegamenti, l'illuministica fiducia nei "progressi della ragione", che ebbe uno dei suoi momenti forti nell'esperienza dell'Accademia dei Pugni e del "Caffè", esperienza a proposito della quale Capra fornisce precisazioni attingendo agli inediti, ma di cui non si occupa analiticamente - e a mio parere è un approccio condivisibile - perché altri - specialmente Gianni Francioni e il compianto Sergio Romagnoli - l'hanno esaminata con esemplare strumentazione erudita ed eccellenti risultati. Un solo motivo di dissenso: è da respingere la categoria di "preromanticismo" alla quale talvolta Capra ricorre richiamandosi a Fubini, Binni e Bonora. Ancorché accreditata da illustri studiosi e tuttora impiegata nell'ambito della storia letteraria, quella categoria attiene a un'indebita ottica teleologica che del resto entra in conflitto con l'immagine dei lumi quale si può ricavare dall'intero libro.

Di particolare interesse sono gli ultimi due capitoli dedicati all'adesione di Verri alla Rivoluzione francese. Non era affatto una scelta scontata, tanto più che avvenne in una fase di rifugio nel privato dopo che Giuseppe II - le cui riforme Verri aveva dapprima sostenuto con entusiasmo (colpiscono le sue idee religiose, più ardite di quelle che sarebbero state alla base della costituzione civile del clero nella Francia rivoluzionaria) - aveva inaugurato la stagione del radicalismo innovatore mettendo da parte il nostro orgoglioso personaggio. Né bisogna dimenticare che dinanzi agli sconvolgimenti d'Oltralpe il comportamento dei philosophes italiani fu assai differenziato. Sebbene i giudizi verriani subissero mutamenti col mutare delle circostanze, essi non giunsero mai al ripudio della Rivoluzione, considerata, anzi, il frutto dei "progressi della ragione". Tale espressione, già usata in opere precedenti, s'incontra più volte in quello straordinario documento che è il catechismo politico composto tra il 1791 e il 1792 e pubblicato qualche anno fa da Gennaro Barbarisi. Certo i massacri di settembre e il Terrore suscitarono la condanna del philosophe milanese: il quale, peraltro, in una lettera al fratello Alessandro di poco successiva al 9 termidoro, non esitò a giustificare la dittatura giacobina, resa indispensabile da una gravissima situazione di emergenza. È una testimonianza preziosa che Capra ha il merito di aver portato alla luce. Nel 1796 Verri ricoprì cariche, schierandosi su posizioni moderate, all'interno del "nuovo ordine di cose" introdotto in Lombardia dai francesi. Ed egli tenne a rivendicare la coerenza mantenuta per tutta la vita nel segno del repubblicanesimo ("la mia anima è sempre stata repubblicana"). Ma fu davvero così? E in che cosa consistette, nei decenni anteriori alla Rivoluzione, il repubblicanesimo di Verri, se repubblicanesimo ci fu? Bastano quel fermento di libertà, quel sentimento d'indipendenza che molti hanno notato e che anche Capra nota? Il problema rimane aperto, benché numerosi siano gli spunti che ci vengono forniti per ulteriori indagini e considerazioni.

Mi ricollego, infine, alle prime righe della prefazione, dove Capra ricorda con gratitudine Nino Valeri, autore dell'unica biografia di Verri di cui disponessimo prima di questo fondamentale volume. Valeri era uno storico finissimo e un uomo delizioso che anch'io ho avuto la fortuna di conoscere. Né posso passare sotto silenzio un altro maestro che su Verri ha scritto pagine essenziali di cui Capra non manca di tener conto: si tratta di Franco Venturi. Capra è in buona compagnia. E ognuno, si sa, ha la compagnia che si merita.

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