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La copertina del nuovo libro di Marco Belpoliti riproduce lo schizzo a penna di una ruota di luna park. Un'immagine di per sé incline a evocare idee serene e positive: l'infanzia, la leggerezza, il divertimento, il gioco. In seconda istanza, la si potrebbe associare a valori simbolici non immuni da fatalismo o malinconia: il moto circolare e quindi l'andamento ciclico del tempo, oppure visto che sulla ruota non appaiono figure umane la crepuscolare stanchezza della festa conclusa. Ma in realtà questa immagine ha il valore di una secca antifrasi. A rivelarlo è la didascalia sottostante, di pugno dell'autore (così come il disegno stesso, uno dei tanti che illustrano il volume): "La ruota dei bambini di Cernobyl". Le giostre, che si trovano nell'abitato di Pripiat', vennero inaugurate il 25 aprile 1986. Funzionarono un solo giorno, la vigilia dell'esplosione di uno dei reattori della vicina centrale nucleare. Da allora la ruota è immobile, come un orologio rotto: e segna una lacerazione irreparabile del tempo, la negazione brutale e ultimativa di ogni possibile idillio. A breve distanza, il greve sarcofago di cemento armato che tiene a bada il materiale radioattivo: una specie di bunker che tende a sprofondare, minacciando ulteriori e ancor più terrificanti catastrofi.
La prova è una raccolta di appunti di viaggio, presi durante la lavorazione del film La strada di Levi (nelle sale all'inizio dell'anno, ora disponibile in dvd). In coppia con il regista Davide Ferrario, Belpoliti ha progettato e realizzato una replica dell'avventurosa anabasi narrata da Primo Levi nella Tregua: dalla Slesia all'Italia attraverso Ucraina, Bielorussia, Romania, Ungheria, Slovacchia, Austria e Germania. Otto mesi, dal 27 gennaio (data dell'ingresso dell'Armata rossa ad Auschwitz) fino all'arrivo a Torino il 19 ottobre, il ritorno a una difficilissima normalità, l'attesa di una "prova" che i reduci del lager presagiscono con timore, fra ricordi assillanti e incubi atroci.
Qual è il senso di tale operazione? Una parte della risposta credo si debba cercare nel confronto con altri viaggi della memoria; primo fra tutti, il viaggio ad Auschwitz, che oltre a ispirare opere letterarie (Campo del sangue di Eraldo Affinati, 1997) è un'esperienza condivisa da migliaia e migliaia di persone, come i pellegrinaggi religiosi d'ogni epoca. Ecco: il viaggio che Belpoliti ci propone si può definire in antitesi al pellegrinaggio inteso come percorso "orientato", intrinsecamente significante, che dalla più o meno esplicita sacralità della meta ricava valore e legittimità. In fondo al tragitto del pellegrino c'è infatti un luogo assoluto, epifanico, che equivale simbolicamente al centro del mondo: si tratti di Gerusalemme o della Mecca, della grotta di Fatima o del crematorio di Birkenau. Quello che Primo Levi compì nel 1945 fu invece un viaggio assurdo, un insensato (e involontario) vagare per un'Europa in rovine, eppure piena di vita: una sospensione che inopinatamente dilazionava la dolorosa verifica dell'umanità sopravvissuta al lager.
Ora, in quanto ripetizione di un cammino altrui, il viaggio di Belpoliti acquista di per sé valore di commemorazione. Ma il vero recupero di senso avviene su un piano diverso. Prima per i sopralluoghi insieme a Ferrario, poi per le riprese
con l'intera troupe, Belpoliti si trova infatti a ripercorrere un itinerario che rimane comunque privo di meta: emblematico è il fatto che non riesca a individuare con precisione il punto estremo della peripezia, la Casa rossa di Staryje Doroghi (del resto presentata da Levi come una sorta di limbo). In compenso, ogni singola tappa appare caratterizzata da altre macerie, diverse e simili a quelle dell'immediato dopoguerra: altre tensioni, altri sforzi di rinascita, altri cortocircuiti fra memoria e oblio. Dalle acciaierie di Nowa Huta alla stazione di merinka, dal mercato di Leopoli al Parco delle statue di Budapest, i cascami del passato recente si mescolano con nuovi monumenti e nuovi musei, i costumi tradizionali e le vestigia ottocentesche si incontrano con l'avanzare di una vorace, imprevedibile modernità.
Ciò che la "strada di Levi" restituisce, sessant'anni dopo la fine del conflitto mondiale e sedici dopo la caduta del Muro di Berlino, è dunque il senso dell'inesorabile contingenza del reale, con cui ciascuno di noi è chiamato a misurarsi. Nessun punto di riferimento sicuro, nessun santuario o oracolo: bensì, più laicamente e fuori da ogni risvolto teleologico, una serie di eventi e di conflitti, di paradossi e di catastrofi (il precedente libro di Belpoliti si intitolava, non a caso, Crolli), protesa verso un incerto futuro. L'andare conta insomma più dell'approdo: lo sguardo mobile che esplora, più di quello che fisso contempla. E nulla si confà a questo assunto meglio di un impianto diaristico, tutto lampi e frammenti, interrogativi, "sincronie". In questa luce, il ruolo che Levi assume è quello del maestro di osservazione: spregiudicato, curioso, alieno da ogni semplificazione frettolosa, conscio dell'infinita varietà e complessità delle cose e dell'importanza cruciale del nesso fra conoscenza e occasioni. Di qui, anche, la necessità di un libro che, se per un verso segue il film insieme a cui è nato, per un altro lo trascende. Le immagini hanno un'immediatezza e una concretezza insostituibili (e ciò vale anche per i disegni e le fotografie); ma, come nota Belpoliti, "per capire occorrono le parole". Sia pur veloci, dimesse, concise, e vergate nei ritagli di tempo sui Moleskine.
Mario Barenghi
Ho letto La prova di Marco Belpoliti nell’edizione Guanda (e dunque a dieci anni dall’edizione Einaudi) in cui l’autore, sulla scorta della Tregua, ripete (insieme al regista David Ferrario) il viaggio di ritorno, da Auschvitz a Torino, che il deportato Primo Levi (sopravvissuto) fece nel 1945. Aggiungo che non ho ancora letto i due ponderosi volumi einaudiani appena usciti dell’opera (quasi) omnia di Primo Levi (sempre a cura di Marco Belpoliti) e che Levi è un autore che io ho sempre apprezzato e ammirato ma non ha mai fatto parte della mia esperienza formativa. Le riflessioni che seguono si riferiscono dunque alla sola Prova, con l’aiuto del ricordo di Se questo è un uomo e La tregua che lessi con passione quando uscirono più di cinquant’anni fa. Di questi due testi allora si diceva che il primo, Se questo è un uomo, è un libro di testimonianza e l’altro, La tregua, di scrittura e racconto. Così nacque (e dura tuttora) il quesito se Primo Levi sia stato più un testimone che uno scrittore; anche perché oltre a quei due libri ne ha scritti molti altri non attinenti (almeno direttamente) con l’esperienza di Auschwitz ma con altre sue competenze e interessi (Levi aveva studiato da chimico e lavorava come chimico quando ebreo fu prelevato dai nazifascisti). Io, pur comprendendolo, non ho mai condiviso quel quesito convinto che non vi è scrittore che non sia nello stesso momento testimone (anche se in Levi la “quantità” e la drammaticità della testimonianza sembrava prevalere). E oggi sono grato a Belpoliti, che indirettamente mi conferma in questo convincimento quando mi fa notare che nei ricordi dei deportati sopravvissuti di Auschwitz (o di qualunque altro lager nazista) vi è memoria del dolore patito ma non dei luoghi in cui hanno sofferto; al contrario – scrive Belpoliti – “ciò che mi colpisce in Se questo è un uomo è la minuzia di Levi, la sua attenzione al dettaglio. Alla prima lettura quasi non lo si coglie. Poi ci si accorge del suo amore per i particolari: sono tutto”. E quell’attenzione non gli viene perché dall’adolescenza era versato nelle scienze ma dall’avvertire (consapevolmente) l’obbligo al riconoscimento (e non a chiudere i conti) che è implicito in ogni scrittore.
Senonché Levi sa fare anche i conti (nel senso di aderire al nocciolo ultimo delle situazioni in cui di volta in volta si ritrova). E quale è il nocciolo duro (e conclusivo) dell’essere internato del campo di Auschwitz (più precisamente in quello limitrofo di Monowitz) se non il sempre più rapido venir meno della speranza, l’impossibilita di aspettarsi qualcosa di diverso dalla morte? I corpi senza più carne dei deportati, ricoperti di stracci, sferzati dalla fame e dal gelo, oggetto di angherie scollate da ogni razionalità (e forse nemmeno da assalti sadici); lo stato raccapricciante delle baracche, così insostenibile da non essere nemmeno un invito per i pidocchi (e ogni altro genere di insetti); lo spegnimento progressivo della memoria fin lì propostasi come aiuto… quale altro panorama di realtà tutto questo dipingeva, quale altro mosaico costruivano se non quello della morte? Diventata forse un desiderio, la gara a raggiungere la fossa dei cadaveri.
Qui Belpoliti introduce mirabilmente il sentimento della vergogna (irrobustita dal senso di colpa), “quella vergogna – scrive Primo Levi – che ci sommergeva dopo le selezioni, e ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio… quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”. In realtà quella vergogna, conclude Belpoliti, era la vergogna di essere un sopravissuto. Dei 630 che insieme a Levi avevano viaggiato stipati nel vagone in arrivo a Auschwitz solo tre sono ritornati (scrive Levi). E quando la morte è così totalitaria, anche quel che resta dei vivi è morto. Come Adorno scriveva che dopo Auschwitz non si può fare più poesia, anche Levi sapeva che per lui non c’era più vita. Anche lui muore a Auschwitz. Poi, quasi per un sortilegio, anziché la fossa dei cadaveri si apre per lui magicamente la porta di uscita dal campo. E stupito si trova vivo ma già morto. Scontato che il suo destino è già compiuto, di quella porta (improvvisamente) aperta decide di (anzi non può che) approfittare. Scopre il privilegio di vivere da morto.
Ma allora perché Belpoliti si stupisce che La tregua si apra (e sviluppi) come un libro di gioia e di gioie? “Quando al primo mattino spalancammo le porte, si aprì ai nostri sguardi uno scenario sorprendentemente domestico: non più la steppa deserta, geologica, ma le colline verdeggianti della Moldavia, con case coloniche. pagliai, filari di viti; non più enigmatiche iscrizioni in cirillico, ma, proprio di fronte al nostro vagone, una Casupola sbilenca, celeste di verderame, con su scritto ben chiaro: Paine, Lapte, Vin, Carmaciuri de Purcel”. Perché ti stupisci che Levi si presti alla sorpresa della vita (e continuerà a farlo anche per i decenni successivi al ritorno), lui che sa di essere per sempre morto? Non è arbitrario pensare che se Levi ha impiegato più di sei mesi per tornare in Italia non è per la scarsità di mezzi di trasporto (e di ogni altro supporto materiale), ma per allargare (vagando e vagabondando) il sapore della vita che per lui era solo un regalo: il suo futuro, qualunque cosa farà, è già segnato.
A una presentazione pubblica dei due possenti volumi delle Opere complete (lì ancora intonsi sul mio tavolo) ha detto (quasi urlato), con la fermezza di chi con quelle Opere (e quell’autore) ha da sempre un rapporto quotidiano, che in Levi la morte è dappertutto, in ogni sua pagina e atto di vita, riferendosi non al sentimento della morte (presente in ciascun uomo vivente) ma alla realtà della morte già compiuta e solo rinviata. La data del rinvio (il giorno della scadenza), se per tutti è decisione del destino (della fatalità), per Levi è la scelta della quotidianità e della congiuntura storico-biografica.
Recensio di Angelo Guglielmi.
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