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"Bisogna acconsentire alla pluralità delle voci, anche se questo comporta la mescolanza con una certa percentuale di assurdità": per quanto a lungo disattesa dalla ortodossia psicoanalitica, alle prese con uno sforzo di rigore teso a consolidare un'immagine di sé forte nel mondo scientifico, questa frase appartiene a Sigmund Freud.
Sicché fin dalle origini un filo accomuna, pur nelle reciproche diffidenze, psicoanalisi e buddismo, non solo nello sforzo di trasformare la sofferenza attraverso il riconoscerne le cause e lasciar andare, nella centralità della percezione dell'esperienza individuale, e nel non troppo badare alle contraddizioni, ma anche nel tipo di trasmissione del sapere con la costituzione di genealogie ereditarie. Anche se ci sono voluti molti anni e forse lo shock della seconda guerra mondiale con il drammatico avvicinamento tra Oriente e Occidente perché la cosa diventasse oggetto di studi e confronti non sporadici, sollecitando, tra l'altro, traduzioni più accurate dei testi buddisti .
Eppure da sempre vi sono analisti che hanno fatto riferimento all'insegnamento buddista: da Ferenczi, Jung, Alexander e Groddeck, i pionieri, a Fromm, Horney, Kelman, per citare i più espliciti, a Winnicott, Searles, Bion e Lacan. Quanto alla letteratura sull'argomento, risale al 1958 lo storico Psicoanalisi e buddismo zen, con saggi di Fromm, Suzuki e Richard De Martino, edito in Italia da Astrolabio nel 1968.
Da allora diversi autori hanno affrontato questo tema nei loro scritti, da S??? Kurtz (The art of unknowing, Jason Aronson, 1989), a Nina Coltart (Slouching Towards Bethlehem, Free Association Books, 1992) J.R??? Suler (Contemporary Psychoanalysis and Eastern Thought, ???, 1993), M.G??? Thompson (The truth about Freud's technique: the encounter with the real, New York University Press, 1994), J??? Rubin (Psychoterapy and Buddhism: Toward an Integration, ???, 1996), C??? Bollas (Cracking up, Cortina, 1996), per citarne alcuni sul versante psicoanalitico, fino ai lavori di Mark Epstein, Pensieri senza pensatore (Astrolabio, 1995) e Lasciarsi andare per non cadere a pezzi (Neri Pozza, 1999).
Naturalmente il prevalere dello zen rispetto ad altre tradizioni buddiste come oggetto di indagine da parte degli psicoanalisti, soprattutto americani, si deve anche alla pubblicazione nel 1948 di Lo zen e il tiro con l'arco, che ebbe, meritatamente, una straordinaria diffusione, a cui seguirono nel 1958 La via dello zen di Alan Watts, e da lì un filone a tutt'oggi ininterrotto.
In questa raccolta Anthony Molino ha cercato di fornire l'istantanea attuale di un terreno in evoluzione, facendo spazio a voci diverse, badando all'accuratezza delle traduzioni, affiancando saggi a interviste, come quella da lui stesso condotta con Nina Coltart, o quella di Joyce Mc Dougall con il Dalai Lama; ha voluto, insomma, mettere insieme uno strumento volto a sollecitare un ulteriore incremento del dialogo.
Il prologo, di Jack Kornfield, Ram Dass, Mokusen Miyuki, L'adattamento psicologico non è una forma di liberazione apre la strada a lavori che si occupano di meditazione (??? Engler, ??? Epstein, ??? Odajnyk), di cronache biografiche (??? Edler, ??? Finn, Molino), di prospettive critiche (??? Phillips, ??? Rubin, ??? Eigen), di teoria e pratica (??? Varela, ??? Cooper, ??? Kurtz), di Budda e Jung (Shoji Muramoto, Masao Abe, Gereon Kopf), di psicoanalisi freudiana e buddismo (??? Bobrow, ??? Suler, ??? Young-Eisendrath). L'appendice chiude rimandando alle origini del dialogo con due scritti che risalgono al 1924: La psicologia nel buddismo primitivo di Joe Tom Sun, pseudonimo dello psicoanalista Joseph Thompson, e al 1931: L'addestramento buddista come catatonia artificiale di Franz Alexander.
Ne risulta un libro all'interno del quale percorrere itinerari diversi alla ricerca di prospettive e cammini più o meno articolabili tra loro per chi, come Julia Kristeva in Le nuove malattie dell'anima, sia alla ricerca di "uno dei pochi tentativi rimasti che permettono il cambiamento e la sorpresa, ovvero che favoriscono la vita".
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