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1996
180 p.
9788870782509

Voce della critica

HADAMARD, JACQUES, La psicologia dell'invenzione in matematica

HADAMARD, JACQUES, La psicologia dell'invenzione in campo matematico

recensione di Israel, G., L'Indice 1994, n. 3

Per quanto un libro sia importante - come lo è questo, il cui autore è l'illustre matematico francese Jacques Hadamard ( 1865-1963) - non è usuale che due diversi editori ne pubblichino simultaneamente due traduzioni. In realtà, la traduzione pubblicata dall'editore Cortina è basata sulla prima edizione inglese (1945) con alcune aggiunte tratte dalla seconda edizione (1949) e dall'edizione francese del 1959; mentre la traduzione proposta dall'editore Hopefulmonster è basata direttamente sull'edizione francese. Quest'ultima, come osserva lo stesso Hadamard, è soltanto una traduzione "riveduta e leggermente aumentata" della prima edizione, per cui, in definitiva, le due presenti edizioni italiane differiscono di poco.
I titoli proposti sono leggermente differenti: quello dell'edizione Cortina traduce testualmente il titolo originale "The Psychology of Invention in the Mathematical Field", mentre quello di Hopefulmonster è "La psicologia dell'invenzione in matematica". Questa differenza è quasi irrilevante. Tuttavia, lo stesso Hadamard osserva nell'introduzione: "il titolo di questo volume è "La psicologia dell'invenzione in campo matematico", non La psicologia dell'invenzione matematica", e ciò in quanto "l'invenzione matematica [è] un caso speciale dell'invenzione in genere". Nel volume edito dalla Hopefulmonster, il brano precedente è tradotto come segue: "ho scelto come titolo: 'La psicologia dell'invenzione in matematica' e non: 'La psicologia dell'invenzione in matematica'"... Questa svista, anche se dovuta a un errore di stampa, nasconde al lettore la sottigliezza della distinzione di Hadamard e alimenta sospetti circa la qualità della proposta editoriale che risulta difatti, a un esame più attento, inferiore a quella dell'editore Cortina. Questo episodio ripropone quindi il problema dell'inopportunità di inondare un mercato, di per se già difficile, di traduzioni condotte in un modo affrettato, che può essere perdonato forse nel genere della letteratura poliziesca o di evasione, ma non in quello della letteratura scientifica.
Veniamo ora ai contenuti del libro. In esso Hadamard affronta il tema delle forme dell'invenzione nel campo della matematica, analizzando i processi psicologici che ad essa conducono. Questa analisi è condotta attraverso la discussione di numerosi casi e testimonianze che permettono di isolare alcuni temi fondamentali come: il ruolo dell'"illuminazione", il rapporto fra conscio e inconscio, il rapporto fra pensiero immaginativo ed espressione semantica e linguistica delle invenzioni o scoperte. Nel discutere questi temi generali, Hadamard passa al vaglio le tesi di matematici, biologi, psicologi, fisiologi, sociologi, letterati, mostrando un'informazione e una conoscenza profonde e sorprendenti delle tesi più diffuse nel periodo in cui il libro fu scritto. Ho detto "sorprendenti", perché è ormai totalmente al di fuori dei nostri orizzonti la figura di uno scienziato di primissimo piano che si interessi in modo non banale di problemi culturali che escono dal dominio stretto della sua disciplina. Negli orizzonti presenti, uno scienziato che manifesti siffatti interessi viene comunemente considerato, nell'ambito della sua disciplina, come un ricercatore scientifico in pensione, oppure fallito, o infine in cerca di udienza in ambienti ambigui; e nei contesti disciplinari "invasi", come un "incursore" che pretende di entrare in ambiti entro i quali non avrebbe le credenziali neppure di aprir bocca. Insomma, figure di "scienziati colti" come Hadamard (e come lo erano tanti suoi contemporanei) sono una rarità oggigiorno, e ciò dà la misura dei guasti prodotti dall'eccessiva settorializzazione della ricerca e dal prevalente atteggiamento tecnicistico.
Uno dei temi centrali dello studio di Hadamard è l'analisi del processo dell'"illuminazione"; ovvero, di quella circostanza straordinaria, e il cui ruolo è al contempo rilevantissimo nel processo delle scoperte scientifiche, per cui, dopo lunghi e infruttuosi periodi di riflessione attorno a un problema, lo scienziato ha di colpo, e sovente in situazioni inaspettate o curiose (quasi mai al tavolo di lavoro), l'intuizione improvvisa - della soluzione del problema stesso. Hadamard analizza una serie di esempi, e in particolare un caso descritto da Henri Poincaré (e che riguarda il modo in cui egli pervenne alla sua teoria delle funzioni fuchsiane), per trarne una serie di conclusioni. Dopo aver messo in evidenza, secondo un punto di vista peraltro diffuso, il ruolo dell'inconscio nell'"illuminazione", Hadamard confuta l'"ipotesi-caso", ovvero il punto di vista secondo cui l'atto di scoperta è un incidente fortuito che si verifica per puro caso. Hadamard osserva, in modo convincente, che, se casi fosse bisognerebbe ammettere che la cultura scientifica non ha alcun ruolo nel processo della scoperta. La scoperta della causa del tifo da parte di Pierre Nicolle (uno dei sostenitori dell'"ipotesi-caso") avrebbe potuto essere fatta da una delle sue infermiere, così come la Costituzione degli Stati Uniti avrebbe potuto essere scritta casualmente da una scimmia pestando sui tasti di una macchina da scrivere. Osserviamo che il tono sprezzante con cui Hadamard liquida questa ipotesi colpisce in modo particolare oggi, in un periodo cioè in cui i tentativi neoriduzionistici di spiegare la "creatività" come il risultato di processi stocastici sono diventati una religione con tanto di sacerdoti pronti a scomunicare chi non accetti i dogmi della fede.
Hadamard discute e respinge, in tutto o in parte, altri tentativi di spiegazione come l'"ipotesi-riposo" (secondo cui l'"illuminazione" è il risultato di una condizione di freschezza cerebrale), l'"ipotesi-dimenticanza" (improvvisa soppressione di ogni "in terferenza", degli indirizzi errati e delle ipotesi di intralcio) e altre ipotesi che attribuiscono un ruolo direttivo o almeno determinante all'inconscio. Al contrario, pur attribuendo un ruolo fondamentale ai processi che si verificano nell'inconscio, Hadamard propende per l'idea secondo cui il processo di preparazione dell'invenzione, guidato in modo consapevole dalla coscienza e determinato quindi dalla cultura e dall'intelligenza dello scienziato, determina il quadro del contesto entro cui l'inconscio interviene per selezionare le combinazioni che conducono all'illuminazione "giusta" Hadamard ricorre a un'efficace immagine proposta da Poincaré, secondo cui le idee sono "qualcosa di simile agli atomi uncinati di Epicuro". In stato di quiete restano "agganciati al muro", e possono non formare mai alcuna combinazione significativa. È a causa di un'agitazione imposta alle idee dalla nostra volontà che gli atomi-idee entrano in una danza che può produrre nuove combinazioni, "risultati indiretti del lavoro conscio originario" e fonte di "ispirazioni apparentemente spontanee".
Le tesi fondamentali di Hadamard sono quindi che l'"invenzione è scelta" e che "questa scelta è governata perentoriamente dal senso della bellezza scientifica". Ritorneremo fra poco sul ruolo della bellezza scientifica. Vogliamo ora sottolineare un altro dei temi centrali di questo volume, che è quello del lavoro conscio contemperaneo e successivo all'invenzione e del rapporto fra intuizione e linguaggio nei processi mentali dello scienziato. Il capitolo dedicato a quest'ultimo tema occupa quasi un quarto del volume e in esso si esprime il rifiuto da parte di Hadamard di ogni tesi tendente a identificare o avvicinare troppo il pensiero al linguaggio. Tale rifiuto è così aspro da suscitare qualche perplessità, soprattutto in ordine alla barriera che Hadamard interpone non soltanto fra il pensiero e il linguaggio, ma anche fra quest'ultimo e i sistemi di segni non linguistici. In tal modo, egli attribuisce ai secondi un carattere di ambiguità e, al contrario, al linguaggio un carattere di assoluta oggettività e univocità. Una tesi quest'ultima che appare poco convincente - in quanto trascura completamente la molteplicità del senso, che è un elemento costitutivo del linguaggio - e che appare influenzata da una visione scientista che finisce, più o meno consapevolmente, con l'elevare una barriera fra il linguaggio scientifico e le altre forme di linguaggio. Tuttavia, non è forse soltanto l'oggettivismo scientifico a condizionare questo punto di vista di Hadamard: esso ha anche le sue radici nell'atteggiamento di un matematico intuizionista e, come tale, fortemente diffidente nei confronti delle visioni assiomatiche e formalistiche del pensiero matematico e che, per difendere il ruolo dell'intuizione, finisce paradossalmente con l'elevare una barriera fra il linguaggio scientifico e gli altri linguaggi. Si è detto del ruolo che Hadamard attribuisce alla "bellezza scientifica" nel processo di invenzione. È questo uno dei temi sviluppati nel modo meno soddisfacente e chiaro. Cosa sia questa "bellezza" Hadamard non lo spiega affatto. Se si tratta difatti del senso generale della "bellezza", quello stesso che (pur con le dovute differenze "disciplinari") porta ad esclamare "bello!" dinanzi a un dipinto di Michelangelo, a un romanzo di Tolstoj, alla "Critica della ragion pura" di Kant, a una sinfonia di Beethoven, alla legge di gravitazione universale di Newton, il riferimento è generico. E l'interesse, o il fascino, di questo tema può esistere soltanto nel senso in cui Dostoevskij definiva la bellezza come quell'"enigma che costituisce l'unica speranza di salvezza del mondo"... Ma se ci si riferisce invece alla bellezza in matematica come a un vago senso di armonia, di simmetria, di composizione strutturata delle parti, il tema è confuso e talmente discutibile (la matematica non è affatto armoniosa) da risultare di scarso interesse.
Da ultimo, le tesi di Hadamard suggeriscono qualche riflessione sul tema del carattere "giovanile" della creatività del matematico. Un leitmotiv di una certa sociologia matematica un po' salottiera degli ultimi decenni è difatti quello secondo cui il matematico sarebbe produttivo e creativo soltanto da giovane (non oltre i trentacinque-quarant'anni come limite estremo). Si tratta di una tesi che potrebbe basarsi soltanto su una visione dell'invenzione come quella dell'"ipotesi-riposo". Tuttavia il punto di vista di Hadamard - confortato dai numerosi controesempi alla tesi "giovanilistica" - ci suggerisce che il ruolo dell'inconscio è indirizzato, anche se indirettamente, dalla coscienza vigile e quindi, in definitiva, oltre che dall'intelligenza, dalla cultura. È quindi la capacità matura (anche se certamente non senile...) di stabilire connessioni e interrelazioni, sulla base di una cultura ampia, che è all'origine del formarsi di teorie profonde e di vasta portata. Difatti, la genesi delle invenzioni più profonde e fertili non risiede certamente nella chiusura in uno stretto orto disciplinare; al contrario, essa è, almeno in parte, spiegata dalla suggestiva formula di Souriau, richiamata da Hadamard: "Per inventare, bisogna pensare a parte".

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