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Definire la soggettività postmoderna come un Io multiplo, babelico, frammentato, scisso, disgregato, dissociato è ormai una consuetudine per l’antropologia filosofica e psicologica, la quale è giunta al punto di diffidare del concetto ciceroniano di "in-dividuus" a favore invece del concetto di "personae" nell’accezione letterale di pluralità di maschere attoriali. In forme differenti se ne parlava già da tempo o forse da sempre. Nel Nuovo Testamento: "Gli domandò: 'Come ti chiami?'. 'Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti'". Oppure La Rochefoucauld: “La fantasia non saprebbe inventare tante diverse contraddizioni quante ce ne sono naturalmente nel cuore di ogni uomo”. E Whitman: “Mi contraddico?/Ma certo che mi contraddico,/(sono grande, contengo moltitudini)”. Infine Ungaretti: “Sono un frutto/d'innumerevoli contrasti d'innesti”. Ma è con Mecacci che per la prima volta, almeno in Italia, s’è tentato d’affrontare il problema dal punto di vista dei metodi d’indagine psicologici. In poche facciate del suo “Psicologia moderna e postmoderna” (pp. 70-2), egli sostiene che i fondamenti neurobiologici di tale “epidemia” di “Sé frantumati” (DPM, Disturbo da Personalità Multipla, oggi rietichettato DDI, Disturbo Dissociativo dell’Identità) vadano studiati con “il nuovo filone di ricerche sull’autismo”, autismo che dunque si porrebbe come nuova "psicopatologia della vita quotidiana". La Mahler aveva già parlato d’un "nucleo autistico originario", così come già Piaget d’una "costanza o persistenza dell’oggetto" d’acquisire e apprendere. Tuttavia, tanto per la psicodinamica quanto per l’epistemologia genetica si tratta di stadi dell’evoluzione e dello sviluppo mentali che nella norma si supererebbero senza residui. Per Mecacci, invece, l’autismo di “default” sarebbe a tutt’oggi una caratteristica umana persistente, appunto una specificità antropologica. Egli cita il libro di Uta Frith da lui stesso tradotto e prefato, in cui si trovano gettate le basi per un’interpretazione di questo tipo.
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