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Hannah Arendt era gelosissima del proprio privato, non amava indugiare nella dimensione personale ed emotiva, perché, come spesso soleva dire, "il cuore umano è un luogo molto oscuro". Persino nei suoi scambi epistolari, ormai quasi tutti tradotti in italiano, è raro imbattersi in digressioni intimistiche, in altrimenti inconfessabili pensieri. Del resto è noto come lei fosse, a dir poco, ostile alla psicoanalisi, alla sua egemonia culturale nell'America del secondo dopoguerra, e come fosse altresì critica verso la disinvolta abitudine di molti intellettuali di svelare al mondo la propria interiorità, sotto forma di autobiografia (memorabile, a questo proposito, ciò che, in una lettera all'amica Mary McCarthy, afferma dei volumi autobiografici di Simone de Beauvoir, definiti narcisistici e autoassolutori).
Arendt fu sempre, infatti, strenua sostenitrice della necessità di separare politicamente la sfera pubblica da quella privata, non per tutelare quest'ultima, ma per preservare la "pluralità" dello spazio pubblico, evitando che venisse ridotto a una "biologia" dei sentimenti e a un'economia dei bisogni. Pubblicati per la prima volta nel 2002 con il titolo di Denktagebuch (a cura di Ursula Ludz e Ingeborg Nordmann per l'editore Piper), questi ventotto quaderni di appunti, numerati e in parte datati dall'autrice (1950-1973), sono stati ora pubblicati in italiano con il titolo Quaderni e diari: una scelta che stempera, per certi versi, la densità del termine tedesco e il suo alludere al "lavoro quotidiano del pensiero". Non di diari ma di taccuini di lavoro infatti si tratta, quaderni di appunti in cui la pensatrice annotava, in maniera abbastanza sistematica, citazioni di autori, poesie, parole-chiave, brevi ragionamenti e altrettanto fugaci riflessioni teoriche su alcune questioni centrali nel dibattito filosofico novecentesco.
Per chi frequenta e ama il pensiero di Hannah Arendt, la prima sensazione che si prova nel leggere i Diari è quella di stare invadendo uno spazio privato, un pensiero che è sul punto di farsi ma ancora acerbo, abbozzato, libero di ruminare sulle proprie incertezze, indecisioni e letture. Tuttavia, questa ambigua sensazione iniziale si trasforma ben presto nel piacere di assistere, dal vivo, alla costruzione teorica delle grandi opere arendtiane, da The Human Condition a On Revolution, da Between Past and Future a The Life of the Mind. Ciò che l'illuminante pensiero di Arendt ci aveva già trasmesso lo ritroviamo qui allo stato nascente, in una sorta di rozza, caotica ma affascinante officina teorica in cui ci pare di sentire il respiro e la fatica del lavoro intellettuale. Attraverso la scansione cronologica dei documenti pazientemente messa a punto dai curatori, prendiamo confidenza con l'emozione di sentire il pensiero arendtiano pulsare, sbocciare, prendere lentamente la forma che avrà poi nei testi maturi.
Scorrendo le pagine, ci si imbatte subito in una densa riflessione (datata 1950) che, sintomaticamente, prende le mosse dal tema perdono: all'indomani della tragedia totalitaria Arendt esplora, furtiva ma determinata, il sentiero impervio della morale e dell'etica, e si chiede quali siano le possibilità, dopo Auschwitz, di agire, di giudicare, di pensare. Gran parte dei taccuini è relativa agli anni 1950-58, l'epoca in cui Arendt lavora alla sua opera di maggiore rilevanza teorica: The Human Condition (Vita activa, Bompiani, 1964). Il tema del perdono vi comparirà infatti come fugace rimedio all'aporia dell'agire, all'indeterminatezza e incontrollabilità della capacità umana di dare vita al nuovo, qualunque esso sia.
I Diari testimoniano altresì della centralità che, nel pensiero arendtiano, svolge la necessaria questione di formulare, dopo il totalitarismo, un nuovo concetto del politico, il quale dovrebbe essere collocato nell'umana capacità di agire piuttosto che in quella del fabbricare. La tradizione del pensiero politico ha scambiato l'azione politica per la fabbricazione, sostituendo praxis con poiesis, l'attività plurale dell'agire con quella solitaria del fabbricare.
"Da Platone in poi (e fino a Heidegger) questa pluralità è d'ostacolo all'uomo nel senso che essa non vuole lasciargli la sua sovranità. L'uomo è però sovrano soltanto in quanto fabbricante, cioè in quanto lavoratore. Se le categorie del lavoro produttivo vengono applicate alla politica, allora 1. la pluralità viene concepita essenzialmente come somma degli individui isolati, e precisamente di coloro che isolatamente fabbricano nella scissione soggetto-oggetto. Oppure la pluralità 2. viene pervertita a un individuo-mostro chiamato umanità".
Sono già presenti, in queste annotazioni, le celebri posizioni arendtiane relative alla politica come sfera di esibizione dell'unicità e ambito di piena realizzazione della pluralità umana: "La politica nasce nell'infra-tra-gli-uomini, dunque del tutto al difuori dell'uomo. Non esiste perciò una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra e si stabilisce quale relazione. Hobbes lo aveva capito". La politica è, secondo Arendt, pensabile solo come relazione, come in-between che permette agli individui di "nascere di nuovo", non secondo il ritmo biologico, animale, del corpo, bensì secondo quello davvero umano della relazione con altri. Tutto questo è patrimonio arendtiano acquisito: i diari ci offrono però il noto sotto forma nuova, primitiva, rozza, e per questo potente nella sua brevità.
Difficile riassumere in poco spazio la ricchezza di materiale che i Diari ci presentano. Tuttavia una cosa si percepisce immediatamente: ciò che rimane costante, e ciò che Arendt si sforza di sviscerare dalle citazioni e nei pensieri abbozzati che, ossessivamente, ricompaiono dopo anni, è un modo efficace di formulare e rafforzare argomentativamente la critica agli "assoluti" filosofico-politici della tradizione. Storia, Umanità, Progresso, Verità sono alcuni dei termini che ossessivamente ricorrono, nel tentativo di venir scalzati dal piedestallo epocale su cui la filosofia li ha collocati. E proprio alla filosofia sono rivolte, nei Diari, alcune delle parole più dure, non mediate dalla revisione o dall'attenuazione, come invece avvenne nei testi pubblicati. "L'affinità tra il filosofo e il tiranno da Platone in poi (
). La logica occidentale, che passa per pensiero e ragione, è tiranna by definition. Di fronte alle leggi immodificabili della logica non vi è nessuna libertà; se la politica è una faccenda che riguarda l'uomo, e la costituzione ragionevole, allora soltanto la tirannide può generare una buona politica. La questione è: esiste un pensiero che non sia tirannico?". L'amore per la filosofia si traduce in un'ossessiva necessità di rivelarne le tentazioni tiranniche e totalitarie: centrale, in questo senso, la questione del rapporto fra verità e violenza, fra assoluto metafisico e coercizione politica.
Ripensare il rapporto fra filosofia e politica, svincolare gli assoluti dalla necessità di essere implementati nella realtà significa, per Arendt, sciogliere il patto di ferro tra filosofia e fabbricazione, tra verità e costruzione di un ordine il peccato originale platonico. A tale compito deve necessariamente provvedere la libertà umana, nella foggia, sorprendente quanto antichissima, della parola e della poesia: "L'accusativo della violenza, come quello dell'amore, distrugge l'infra, lo annienta o lo brucia, rende l'altro vulnerabile, priva se stesso della protezione. A ciò si contrappone il dativo del dire e del parlare, che conferma l'infra, si muove nell'infra. Poi esiste anche l'accusativo del canto lirico che, senza confermare alcunché, scioglie e redime dall'infra e dalle sue relazioni ciò di cui si canta. Se è la poesia, e non la filosofia, ad assolutizzare, allora c'è salvezza". Olivia Guaraldo
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