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Nel suo nuovo libro, Giulio Paolini compie una riflessione sul rapporto tra opera e autore, descrive il meccanismo che regola la produzione artistica. Il primo passo di questo ragionamento coinvolge il processo di dispersione che è connaturato al lavoro dell'artista. Questi, infatti, lascia inevitabilmente delle tracce di sé nelle opere che realizza, disperde volta per volta una parte della propria identità. Ma Paolini volge lo sguardo anche in altra direzione, rivendicando il diritto di raccogliere e selezionare i propri materiali. L'artista può infatti agire anche nella dimensione espositiva, poiché "l'opera è quell'insieme di opere che si offrono in esposizione". La costruzione di una mostra entra così a far parte del corpus dell'artista. In quest'ottica, il libro si apre come un compasso, pantografando negli spazi espositivi i segni che solitamente vivono all'interno di un solo lavoro. Paolini tenta in tal modo di ridurre un'insanabile frattura: le opere continueranno a incontrarsi in mostre e in cataloghi ben oltre la morte del loro autore. Lo scarto tra le due condizioni è risolto attraverso le pagine del libro: gli strumenti e i meccanismi ottici che sostengono il lavoro di Paolini (l'orizzonte, l'oggetto invisibile ecc.) sono distillati uno a uno come voci di glossario, sono pazientemente cuciti addosso alle opere. Il lettore può così vagliare direttamente le diverse possibilità di combinare disegno, immagini e concetti. I passi che servono a Paolini per compiere il suo percorso non sono però soltanto quattro. Le coordinate della scacchiera sulla quale si muove non sono rigide, poiché i punti d'osservazione mutano continuamente. Oscillando tra gli opposti poli dell'indagine analitica di un'opera e di una panoramica sull'intera produzione, Paolini costruisce un nitido autoritratto, che funziona da perfetta premessa per il suo futuro catalogo ragionato.
Mattia Patti
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