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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2013
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Con questo nuovo libro - pur ricco di testi molto riusciti ed esemplari della poetica dell'autore - ritroviamo un De Angelis quanto mai "condannato" alla maniera di se stesso. Schiavo dei propri consueti imperativi di poetica e conseguenti modalità di cortocircuito linguistico: del dovere dell'intuizione veritativa irrazionale (mistificante?) ottenuta per congestione di pensiero metaforizzante, sempre a un passo dall'esagerazione, tanto compreso di sé da rischiare a volte, se letto con occhio esterno e smagato, anche la comicità involontaria. Il tono deangelisiano, sempre e a tutti i costi "oracolare", apocalittico, trasfigurante, forza all'innalzamento tutte le proprie locuzioni, crea l'aspettativa della verticalità bruciante in tutte le forme linguistiche che utilizza, così invece estenuandole: e alla lunga estenuando anche il lettore, che ben comprende che questo modo di fare poesia è tutto e soltanto un effetto costruito, senza vera profondità: vertigine-meccanismo, per di più obliterato da una medesima, scoperta e gravosa intenzione autorale. A tale intentio, spesso, il dettato verbale è addirittura "forzato" ad obbedire, ma le parole girano a vuoto o non ce la fanno, non arrivano dove De Angelis vorrebbe spingerle: perché non sempre le scelte lessicali sono ben finalizzate, felici. E nemmeno fresche (come si diceva all'inizio, il poeta da lustri ormai e indipendentemente dal tipo di verso utilizzato e dal tema di superficie delle raccolte, ripete i propri moduli, le proprie posture idiolettali, gli attacchi enunciativi, le cadenze, gli scarti, le clausole, l'uso dei deittici, dei tempi verbali ecc. tutto troppo riconoscibile, ricorrente).
Recensioni
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Nel Tema dell'addio (Mondadori, 2005), il libro di De Angelis comparso cinque anni prima di questo, i lettori avvertirono tratti di una confidenzialità in un certo senso insolita, una diffusa decisione narrativa inscritta apertamente anche nella opzione abbastanza stabile per i tempi del verbo al passato. La biografia si era scavata un proprio percorso espressivo assimilabile alle vie canoniche dell'istituto grammaticale stesso. Da un lato assistemmo tra i lettori a una convergenza folta di consensi emotivi, di identificazioni allargate; dall'altro alcuni di noi rimpiansero almeno in parte le trafitture ellittiche e i bagliori enigmatici cui il lavoro del poeta milanese ci aveva abituati già dai suoi folgoranti esordi. Vedevamo in lui il portatore di una resistenza allo slittamento verso la prosa, il sostegno autorevole, in forma di vero e proprio caposcuola, di una speranza nella autonomia del "poetico" dotata ancora di un proprio pubblico non atrofizzato dalla pressione minacciosa del consumo di intrecci. Sempre indiscutibile la personalità di De Angelis, e però sensibilmente intenerita l'energia di straniamento. E non volle essere tanto un giudizio di valore quanto una semplice constatazione. Certo la vicenda personale dell'autore fu allora tale da predisporgli una sorta di ineludibile appuntamento con la tradizione del connubio lutto-canto, un petrarchismo appena intravisto ma comunque reale all'interno del quale gli spazi di verità nel e del linguaggio aderiscono appunto strettamente alla storia del soggetto. Quella esperienza autoriale avrebbe potuto, in un poeta meno dotato, segnare il percorso espressivo a venire, tanto più che i tempi sono apertamente maturi e insidiosi perché l'invito a raccogliere i frutti di questa resa alla non meglio definita "comprensibilità" venga captato in modo crescente. Ma ecco che in questo nuovo libro (non inganni il titolo servizievole) anche gli spazi più confidenziali sono tracciati all'insegna di una pseudonarratività che scava un rapporto sbilanciato tra il reale e la sua verbalizzata interpretazione; le simmetrie vengono regolarmente spezzate e la spinta alla verticalizzazione si realizza nella obliterazione del narrare e nella reintroduzione di cardini simbolici che si dispongono secondo i noti progetti gerarchici. Credo che il lessema "sangue" vanti il primato di frequenza, e che però sia seguito abbastanza da vicino dal suo coprotagonista "buio". Se da un lato c'è qualcosa che ci fa pensare allo stesso Georg Trakl (non so se la critica ne abbia mai parlato), e cioè a una poetica delle primarietà psichiche e delle aggressioni simboliche dei primordi che peraltro non si dispone mai a una lettura irrazionalistica, questo segno (e quello tra gli altri che è il "respiro") ci fa pensare a un bisogno di organizzare una lettura del mondo su basi in un certo senso cupamente essenziali. Esistono delle precedenze che hanno nome di valenze primarie dell'esperienza ricondotta alla biologia: su respiro, sangue, buio, la storia costruisce il proprio percorso di distruzione, ponendosi in un conflitto incessante e capillare con il soggetto che tenta incessantemente di affermare i propri margini di resistenza. Per questo il mito dell'adolescenza, così spesso e giustamente rilevato dagli interpreti, non dovrebbe essere letto in senso vitalistico quanto, all'opposto, come segnalatore doppiamente esemplare della precarietà. E dunque il corpo, che il trasporto sportivo (quanti flessibili atleti nella nudità solitaria del salto) sembra identificare con l'eroe, è l'indice supremo di una sconfitta già interna al suo esporsi e stupire. La lingua di De Angelis, come del resto quella di Trakl, non è intenzionalmente innovativa. Le folgorazioni funzionano a livello di denotazione contrastata, di spettacolo situazionale che va ad affondare in zone oniriche, in febbri coscienziali costruite come edifici razionali dei possibili, là dove è possibile il controllo di una omologazione tra razionale e suo contrario. La storia del soggetto è la storia del corpo azzerata, appunto, a stadi di primordialità quali il buio e il sangue e il respiro. In tutto ciò c'è un fondamento di tipo radicale: la faccia universale della distruzione e della precarietà ha bisogno delle sue maschere di eroismo per non trascinarci in un pathos dichiarato. La solitudine è la parte di onestà di questa visione: a soccorrerla interviene la polis, ma la Milano di De Angelis è ancora una volta più simile a un reperto, o a una serie di reliquie oniriche, rispetto a una vulgata che ne ha fatto circolare ampiamente la centralità, vitalità, appartenenza emotiva. Qui mi sembra, viceversa, che domini una immagine frammentata di città rimasta identificabile, per quel poco appunto che ne rimane, dopo lo sgretolamento operato dalla memoria e dopo che la memoria è riuscita a metterne in salvo non più che frammenti e bagliori, relitti notturni, attivando l'autocoscienza della precarietà come trauma fondativo: come certi sogni che hanno un'eco prolungata e sinistra, una luce d'incendio al fondo della quale si dispone, non sempre esaudita, un'ansia di risveglio. Giorgio Luzzi
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