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Anno edizione: 2020
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È una stagione nuova, sconosciuta, che le quattro della tradizione raccoglie, supera e scompone aprendo il campo a un tempo indefinito, penoso e scriteriato - sole nell'uragano, arcobaleno al buio, sete dell'affogato - cieca ricerca di un comune afflato che tenga insieme quanto invece si slabbra, sfalda, decompone: ecco la quinta, inedita stagione.
Mille voci – furiose e dolcissime, alte e sfrenate, colte o volgari, precipitose, afferrate per strada o riprese dalla tradizione letteraria – coabitano nella mente del protagonista di questo monologo drammatico. Il poeta-ventriloquo tutte le accoglie per comporre la sua appassionata sonata alla Quinta Stagione, il tempo nuovo, difficile, confuso, sconcertante, che s’impone. Una nuova stagione in cui, al di là delle maschere della vita sociale e delle narrazioni private ad uso consolatorio, siamo chiamati a fare i conti con noi stessi. Con la nostra intima verità. Umile, prosaica, contraddittoria. Aperta alle questioni finali. Cosí da ritrovare la nostra propria appartenenza al flusso collettivo e universale. Noi, nel Mondo. Il poemetto, dalla forte impronta teatrale, si snoda secondo quella forma discorsiva-divagante, in cui Marcoaldi è maestro. Ma piú l’andamento si fa sussultorio e centrifugo, piú conduce il lettore nella selva oscura del senso profondo della vita. E dietro il tono apparente di conversazione, prende corpo qualcosa di molto simile a una Apocalisse. Che racconta la fine irreversibile di un tempo ormai per sempre consumato, e anticipa in controluce un possibile, nuovo inizio.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
La stagione che si apre al poeta, alle soglie dei sessantacinque anni, è “inedita, nuova, sconosciuta”, si offre come generosa e vivace sorpresa. Eccolo dunque sopraggiunto, il momento ineludibile e severamente censorio in cui si tirano le somme dell’esistenza intera, in cui “eccesso” di parole e “afasia” si rincorrono e sovrastano, resi entrambi urgenti dall’esigenza di giustificare o di “sorvolare”, come consiglia l’autore. Il “teatro degli inganni” che vede ogni essere umano protagonista della recita imposta dai copioni del vivere sociale, si trasforma in un “teatro interiore”, magari ugualmente confuso e cacofonico, ma perlomeno più assorto, e nelle aspirazioni, più sincero. “Ora però ti è offerta l’occasione / di raccoglierti e fermarti, / di osservare e di osservarti”. Il poemetto, scandito in dodici sezioni, si distende in forme gradevolmente colloquiali, con una voce narrante e interrogante che interloquisce con altri invisibili personaggi, o con se stesso, in un vivace scambio delle parti, dove toni meditativi si alternano ad accenti più disinvolti e maliziosi, cadenze musicali a impostazioni più rigidamente prosastiche. Le metafore utilizzate da Marcoaldi nella sua riflessione sul tempo che scorre inesorabile, sull’età che avanza, appaiono al lettore curiose e leggere, svagate nella loro imprevista allusività (l’angelo spiumato, i bulloni allentati, il mantice affannoso della fisarmonica, la corona di perle sgranata…). Riguardo al suo futuro individuale, e a quello che aspetta l’umanità tutta, Marcoaldi mantiene scarse illusioni: “Solo la danza e il canto ci possono aiutare”. Oltre la materia di cui siamo fatti, oltre la bellezza gratuita che ci viene quotidianamente offerta, ci resta appena “la nostra comica e dolente // esistenziale passeggiata / nello spazio sublunare”. Tra rassegnazione, malinconia e vaghissime attese, il poeta conclude il suo monologo in versi, in un teatro semi-deserto, davanti a un pubblico distratto, che non sa più applaudire.
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