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Anno edizione: 2013
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Aleykhem descriveva un mondo e una realtà conosciuta ai suoi lettori (di essi era considerato l’intercessore): le storie erano attraversate da un senso morale condiviso dalla tradizione ebraica, che combinava elementi magici, realistici e di critica sociale resi per mezzo della lingua del suo popolo, lo jiddish (mentre l’ebraico con la sua pronuncia sefardita era visto come lingua scritta, di studio, per uomini dotti – a tale proposito si vedano i capitoli iniziali della “Famiglia Karnowski” di I.J. Singer, qui il dissidio riguarda la scelta del tedesco a discapito del dialetto di Melnitz e del suo umile retaggio hassidico); poiché egli intendeva dare splendore letterario a questa ruvida e gergale lingua degli ebrei dell’Europa orientale, priva della sublimità liturgica dell’ebraico e di nicchia, minoritaria rispetto alla presenza dominante del russo. In questa cornice di pensiero e di intenti, Aleykhem fondò a Kiev una collana di libri chiamata, programmaticamente, “Di jidische folksbibliothek” (La biblioteca jiddish del popolo), all’interno della quale furono pubblicate ad intervalli regolari le opere di molti piccoli poeti jiddish; fra questi i romanzi di Mendele Mocher Seforim, di Jitzchak Lejb Peretz, di David Frischmann e i suoi primi romanzi “Stempenju” (1888) e “Jossele, die Nachtigall” (Jossele, l’usignolo, 1889). La collana ebbe naturalmente un vasto pubblico di lettori. A causa degli atti sempre più minacciosi e violenti della propaganda antisemita, Aleykhem fu attivamente impegnato per il movimento sionista; scrivendo nel settimanale “Der Jid” e confezionando brochure di propaganda ebraica. Tuttavia, decise poi di espatriare negli Stati Uniti, fermandosi a New York nel 1905, e non in Palestina; ciò dopo un lungo vagabondare per l’Europa (Aleykhem, per l’aggravarsi dei problemi finanziari e delle persecuzioni anti-ebraiche – come il pogrom, cui nel 1905 sopravvisse, a Kiev – aveva abitato prima a Kiev, poi a Odessa e Parigi).
Durante il corteo funebre per le vie di New York, il 15 maggio del 1916, i negozi ebraici rimasero chiusi per l’intera giornata e centinaia di migliaia di persone seguirono compostamente, come imprigionate in un lungo e rispettoso silenzio, il feretro. S.A., morto il tredici, era uno degli scrittori jiddish più letti e amati, il suo rapporto con la gente era sempre stato molto stretto e ricco di reciproco affetto, instauratosi tacitamente in un accordo profondo e duraturo. Nei suoi racconti, la scena centrale è occupata dallo shtetl, termine jiddish che indica il villaggio o la cittadella ebraica, differenziandosi, almeno nelle zone slave, dal ghetto, e protagonisti sono i cittadini (gli ‘Schtedtljuden’), la varia e preziosa umanità di pover’uomini che lo animava: diventati—nella prestigiosità della trasfigurazione letteraria—una cornucopia di figure archetipiche con e grazie alle quali l’autore compie la trasformazione del folclore ebraico in opera letteraria. Dopo aver cercato e in loro trovato quella forza misteriosa, trasversale, legata alla pochezza dei fatti di paese che però viene detta ‘Menschenleben’, la vita degli uomini. Nelle sue ultime volontà, S.A. chiese di essere seppellito in una semplice tomba fra i poveri, senza onori e senza discorsi commemorativi: l’espressione jiddish “frejlache Kapzonim”, beata povera gente, è una sua invenzione. Mostrava rispetto per la ‘Balbatischkejt’, quella rispettabilità dell’essere umano che rende uguali i ricchi e i poveri, soprattutto durante lo Shabbat con i suoi candelabri accesi, i suoi inni (smires) e le sue preghiere. I poveri di fronte ai quali il mondo si apre, erano la saggezza del suo universo poetico. La gente umile, con la sua limitatezza, onestà e calma, e una intelligenza priva di orgoglio dava chiarezza e realtà alla sua idea di religione della vita: quella sensibilità morale, nel suo semplice e immutabile ritmo ricalcato sul ritmo della natura, che è poi l’anima stessa della Legge che dà forma al mondo.
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