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hardcover 1752 9788804452898 Ottimo (Fine).

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Racconti

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1998
1752 p.
9788804452898

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stefano
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Una scrittura semplice eppure affascinante, monotona (nel senso positivo di un solo sublime tono), questi racconti ti trasportano fuori del tempo e dello spazio. Dio ti benedica Isaac Singer.

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Voce della critica


recensioni di Magris, C. L'Indice del 1999, n. 03

Molti anni fa, passeggiando con Singer fra i prati che circondano Wengen – il paese delle Alpi svizzere dove d’estate trascorreva sempre le vacanze, insieme ad Alma, sua moglie – gli chiesi, con la libertà e l’irruente franchezza che solo la passione e l’ammirazione totale rendono possibili, perché, dopo aver scritto alcune parabole e racconti fra i più alti e originali della letteratura universale, scrivesse dei romanzi non certo privi di grandi pagine ma, tutto sommato, robustamente stagionati ed epigonali. Giuste o sbagliate che siano, cose simili si possono dire solo a uno scrittore che si ama incondizionatamente e che si considera un grande o un grandissimo; a Omero si potrebbe dire tranquillamente in faccia che in alcuni passi, secondo il detto famoso, anch’egli sonnecchia, proprio perché è Omero e, se potesse ascoltarci, saprebbe e sentirebbe bene che lo consideriamo la poesia stessa. È invece difficile dire una brusca verità a uno scrittore decoroso ma mediocre, al quale ci si affanna a fare premurosi e rassicuranti complimenti.

Singer infatti non si risentì minimamente di quella mia osservazione; ci conoscevamo già da molti anni e anche le nostre lettere non avevano mai avuto bisogno di cautele diplomatiche. Non capì le ragioni critiche di quel mio giudizio, così come non aveva capito bene, poco prima, perché amassi tanto Il non veduto (titolo che preferisco a Colui che non era visto, col quale compare sui "Meridiani"), un suo capolavoro che ricordava solo vagamente. Non poteva comprendere quell’osservazione, perché non era un intellettuale, non aveva alcun interesse reale per la problematica del romanzo; anche nella sua conversazione, concreta e imprevedibile, un’osservazione geniale su Flaubert poteva essere seguita da una banalità su Stendhal o su Joyce. Wittgenstein avrebbe detto che egli scriveva con la mano più che con la testa, e nella mano che scarabocchia parole o il profilo di una persona – come in un gesto o in un’inflessione di voce – ci può essere una verità di cui non sempre la testa è chiaramente consapevole.

Per questo i grandi poeti possono talora apparire demonici e inconsapevoli come divinità impersonali, ignare di ciò che creano come le leggi ottiche e la trasparenza dell’aria non si rendono conto dello splendore di un tramonto. Nelle loro pagine troviamo le figure della nostra felicità o della nostra morte, della nostra fedeltà o del nostro disordine, ma se abbiamo occasione di ringraziarli, spesso il loro stupore e la loro perplessità ricordano l’incertezza di Goethe quando Solger gli parlava del personaggio dell’architetto nelle Affinità elettive ed egli si accorgeva di non aver notato le caratteristiche che l’altro celebrava. Così Singer. Quando la sua mano aveva disegnato i lineamenti di Nathan Jozefover e di Roise Temerl, i due protagonisti del Non veduto, la sua testa aveva pensato soltanto ai ricordi della sua giovinezza in Polonia, alla mezuzàh, la pergamena rituale con i versetti biblici appesa sulla porta delle case, all’odore dei cibi kasher; non aveva pensato a che cosa tutto ciò, unito e fuso in una parabola stupenda, potesse significare per tutti gli altri, per coloro che non avevano ricordi di borghi ebraici polacchi, di filatteri né di taled, i mantelli di preghiera.

A quella mia domanda egli, continuando a infilzare le foglie cadute a terra con la punta del suo bastone, rispose, esitando, che semplicemente lui scriveva le cose che, in quel momento, gli piacevano. Insomma, era come se qualcuno mi avesse chiesto perché faccio il bagno di mare a Barcola, a Trieste, e non sulla più pregiata Costa Azzurra. E allora gli dissi: "Vede, io sono più intelligente di Lei, ma Lei, ahimè, è un genio".

Continuo a credere che la grandezza di Singer risieda nei racconti. I romanzi sono pieni di suggestione, rivelano straordinaria perizia narrativa e si aprono su momenti indimenticabili, ma nel complesso si tratta di opere epigonali del grande romanzo ottocentesco e si può tranquillamente scrivere la storia della letteratura del Novecento senza fare i conti con essi. I racconti e le parabole costituiscono (molti e non tutti, ovviamente, perché, specialmente negli ultimi anni, lo scrittore indulgeva a un’autostilizzazione e a troppe variazioni ripetibili a piacere) una creazione irripetibile, di straordinaria intensità e audace concentrazione, un’opera fondamentale. La scelta di presentare, nell’ampio volume dei "Meridiani", Singer attraverso i racconti e non i romanzi appare quindi quanto mai felice.

In molti di questi racconti, Singer riesce a esprimere con indelebile forza l’assoluto di ogni momento della vita – amore, sofferenza, seduzione, orrore, gioia – stagliato contro lo sfondo dell’eterno e del nulla. Nel suo jiddisch – lingua viva di un mondo che non esiste più, una lingua che egli ha definito "morta", perché la usa come pura, fantomatica anche se corposa e sanguigna lingua poetica, diversa da quella colorita e vernacola delle comunità ebraiche cui invece ricorre quando si sdoppia, come osserva Alberto Cavaglion nell’introduzione, nello scrittore folclorico Warshawsky – Singer ritrae una pienezza di vita che rimane tale anche quando viene aggredita dalla morte. Alcuni racconti, e fra i più grandi – ad esempio Colui che non era visto, L’ultimo demone, Lo specchio, La rovina di Kreshev –, sono narrati in prima persona dal demone, dal serpente primevo o dall’ultimo dei persuasori, ormai inutile perché l’uomo è già persuaso al male e non ha più bisogno di tentatori; altri racconti si sdipanano da proverbi popolari e detti sapienziali, da aforismi la cui "semplicità ingannevole – scrive Giuseppe Pontiggia nella prefazione – collega l’evento singolo a una legge universale"; altri nascono da confidenze di vagabondi afferrate a volo sul ciglio della strada o da chiacchiere mormorate nel tempio e nella bottega.

In Singer c’è posto per ogni corda della vita, dai dettagli fisiologici alle cose ultime; parla dal punto di vista della gioia e della disperazione, della fede e della negazione, con un’apertura totale sulla realtà che solo la grande epica conosce e nella quale il giudizio sulla vita ritorna a immergersi di continuo nella vita, in un gioco di ambiguità (ambiguità morale che diviene metafora di quella della letteratura moderna) e di assolutezza. La letteratura è insieme parabola della legge e veicolo della desacralizzazione moderna e della dissoluzione d’ogni fondamento e valore; il messianismo, con la sua accelerazione del trionfo del male voluta per affrettare il successivo avvento della redenzione, è anche figura della mistica apocalittica della rivoluzione totale; la malinconia, raffigurata con straordinaria potenza, è pure simbolo di una caduta infera.

Così intensa nell’evocare la malinconia, la scrittura di Singer coglie dovunque, con una vitalità inscindibile dalla pietas, una pienezza di senso, cifrata in un’inesauribile presenza di Eros in tutta la sua gamma, dalla tenerezza alla brutalità, dall’incanto alla perversione; egli si pone dalla parte della legge ma anche della vita brada che sembra ignorarla. Ogni gesto dell’individuo, come le nozze del dottor Fischelson nello Spinoza di via del Mercato, è collocato nel processo cosmico, da cui può derivare serena armonia come annichilente vanità; l’occhio di Singer è amoroso e spietato, ritrae l’intera realtà senza titubanze, con quella familiarità con l’Eros, la morte e il nulla che deriva spesso da una fede vissuta col proprio corpo e conferisce una confidenza piena con la fisicità e la materia, "l’abbandono di coloro che non temono più nulla per il loro corpo". Il suo artiglio visionario diviene, forse senza precisa consapevolezza, fulminea e geniale invenzione linguistica e narrativa, capacità di scolpire la realtà e di sfumarla nell’irreale, come in Un matrimonio a Brownsville, di incidere sul viso degli uomini un disinganno totale, come in Caricatura, o un’intoccabile felicità, come in Breve venerdì; soprattutto capacità di creare una struttura narrativa nuova, unica e irripetibile, che è insieme racconto, parabola ed epitaffio e qualcosa d’altro che neanche l’autore ben sa, e nemmeno i suoi lettori e critici, i quali, nonostante quella mia illusoria affermazione quel giorno a Wengen, non la sanno certo più lunga di lui.

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Isaac Bashevis Singer

1903, Leoncin

Isaac Bashevis Singer è stato uno scrittore ebreo-polacco di lingua jiddish, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1978. Di ascendenza rabbinica, trascorse l’infanzia nel quartiere popolare di Varsavia dove il padre aveva il suo «Beth Din» (tribunale religioso ebraico): l’esperienza di questo ambiente osservante e avventuroso, domestico e insieme sacrale (rievocato nel libro di ricordi Alla corte di mio padre, 1966), così come gli studi nel seminario rabbinico di Varsavia, furono determinanti per la sua personalità di scrittore, rivelatasi dopo che, nel 1935, si trasferì a New York. Il suo primo romanzo, Satana a Goray (1935), ritrae la tentazione messianica, ossia il sogno mistico-erotico e perverso di cooperare all’infrazione...

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