Ancora una volta gli autori di questo terzo Rapporto sulla scuola (Gianfranco De Simone, Gerard Ferrer-Esteban, Marco Gioannini, Stefano Molina, Andrea Gavosto, tutti della Fondazione Giovanni Agnelli che è diretta dallo stesso Gavosto) organizzano la loro ricerca intorno all'idea che, se la scuola perseguisse l'equità (una certa eguaglianza nelle condizioni culturali di partenza delle giovani generazioni), sarebbe anche assicurato il miglioramento delle sue prestazioni formative per tutti gli alunni, a vantaggio di una società complessivamente più ingegnosa e più colta. È una convinzione che richiede non tanto una notevole predisposizione altruistica, quanto un (raro e difficile da mantenere) ottimismo dell'intelligenza. Ma per fortuna la ricerca mette oggi a disposizione non poche evidenze empiriche a favore di questo ideale. Ovviamente l'eguaglianza delle opportunità deve riguardare i primi livelli della scolarizzazione. Inseguirla nelle scuole superiori e perfino a livello universitario è un affanno non solo poco produttivo, ma è anche, quando non ci si limiti a considerare le risorse per il diritto allo studio per i meritevoli, politicamente ambiguo, in alleanza sostanziale con il populismo plebeo con cui una parte degli attuali ceti dirigenti coltiva e propaganda l'anti-intellettualismo di massa. Dunque opportunamente l'équipe della Fondazione Agnelli individua oggi la scuola media come il luogo decisivo per la realizzazione dell'ideale di equità formativa. Non che la scuola elementare non sia a tal fine estremamente importante (forse è ancora più importante), ma è che in Italia molti indicatori, e molte convinzioni diffuse, ci dicono che le prestazioni della scuola elementare italiana sono buone se ragionevolmente confrontate con quel che accade in altri paesi, non solo con astratti standard ideali (sebbene sarebbe utile mantenerli vivi, questi ideali, anche a impedire, come da noi è accaduto, che su questo pezzo positivo di scuola si accentrino i risparmi della spesa pubblica). D'altra parte, molti indicatori, e molte convinzioni diffuse, ci dicono che la scuola media è il luogo dove si ratificano i destini di diseguaglianza originaria delle giovani generazioni e dove, allo stesso tempo, tutti apprendono poco, in particolare per quei "fondamentali" che sono il saper scrivere, leggere e far di conto. Ancora una strana eterogenesi dei fini: le cose vanno in un verso molto differente da quel che si era voluto. La scuola media italiana attuale è il frutto di quel che possiamo considerare come la riforma scolastica più generosa e più lungimirante fra i tentativi di riforma che in questo campo si sono realizzati nel nostro paese dopo la seconda guerra mondiale. Agli inizi degli anni sessanta, in un'Italia allora come oggi popolata da ceti medi atterriti dall'assedio dei poveri, la speranza in un centrosinistra più moderno e più egualitario si legò, fra mille resistenze (insegnanti compresi), all'istituzione della scuola media "unica" e al connesso prolungamento dell'obbligo scolastico. Si pensi che ancora oggi in Germania, in Austria e in Olanda la separazione fra scuole professionali e scuole generaliste avviene al termine della scuola elementare. Nelle intenzioni esplicite di quella buona riforma italiana era in evidenza l'equità. Quel che successivamente è accaduto può essere rappresentato utilizzando anche una minima parte dell'informazione che questo Rapporto raccoglie. Per esempio (e lasciando da parte la difficile situazione dei ragazzi stranieri): alla terza media la probabilità di essere in ritardo con gli studi da parte di figli di genitori a bassa istruzione è da 2,6 a 4,1 superiore a quella di figli di genitori laureati; nelle prove Invalsi di italiano e di matematica la scuola elementare riduce, dalla seconda alla quinta classe, i divari fra le diverse zone geopolitiche italiane, ma questi divari si riacutizzano di nuovo nel corso della prima media (si vedano anche i dati della rilevazione Timss); finite le tre medie, i divari diventano infine clamorosi nel passaggio immediato alle superiori, con un recupero notevole di punteggi da parte della prima classe dei liceali (da 480 a 525 per la matematica e da 495 a 537 per le scienze), con un declassamento definitivo dei ragazzi delle prima classe delle professionali (da 480 a 435 e da 495 a 440) e con un'insoddisfacente posizione intermedia dei ragazzi delle tecniche. Le ragioni di queste cattive prestazioni della scuola media sono variamente esposte nelle pagine del Rapporto. Potremmo sostanzialmente dire che la ragione riassuntiva consiste nel fatto che la generosa inclinazione all'equità, da parte dei riformatori della scuola media "unica", non fu accompagnata dalla consapevolezza di quante risorse specifiche occorresse mettere in campo per affrontare il nodo della diseguaglianza intellettuale in una età difficile come quella dell'adolescenza, vale a dire per produrre una collettiva padronanza del pensiero logico-formale (è qui che già la media è profondamente diversa dalle elementari). Più in dettaglio, i mali di questo "anello debole" della scuola italiana, quali individuati dall'équipe della Fondazione Agnelli, possono essere dedotti dai rimedi che la stessa propone (sulla base di un'ingente documentazione probatoria). Viene messo da parte, certo anche in considerazione della generale difficoltà dei tempi, ma non solo, il rimedio che fu caro al ministro Berlinguer, e parzialmente al ministro Moratti, di avvicinare la scuola media italiana al modello scandinavo, costituendo un unico ciclo fra elementari e medie (di nuovo questa potrebbe essere un'innovazione che resta "sulla carta" se priva di reali dispositivi). I suggerimenti sono invece i seguenti: a) incrementare e potenziare l'esperienza degli istituti comprensivi per contenere gli effetti negativi della transizione fra tipi di scuola; b) personalizzare maggiormente l'insegnamento, introducendo forme di flessibilità organizzativa; c) costruire forme di apprendimento cooperativo, basate su gruppi di apprendimento nei quali diventa regola che le prestazioni possono individualmente migliorarsi solo a condizione che migliorino per tutti i partecipanti (molte ricerche documentano che per questa via si ottiene tutt'altro che un decremento formativo per i "migliori", anzi una loro più intensa motivazione ad apprendere e a fare apprendere); d) ridurre le materie di studio e valorizzare maggiormente i "nuclei fondanti" dello sviluppo cognitivo (scrittura, analisi e comprensione dei testi, conoscenza dell'inglese, capacità di risolvere problemi logici, disposizione alla verifica scientifica); e) ostacolare il più possibile la formazione di classi omogenee per livello socioculturale dei genitori (i risultati di qualche ricerca mostrano in modo perentorio che i rendimenti di classi eterogenee sono, a certe condizioni, molto più alti che quelli in classi di socialmente eguali); f) poiché gli attuali insegnanti di scuola media hanno la più alta media di anzianità, e nei prossimi anni sarà dunque molto alto il ricambio di insegnanti in questo comparto, evitare che questo ingente fabbisogno congiunturale serva semplicemente a smaltire la lunga coda dei precari e preparare invece concorsi a esito netto (tot posti nella scuola media, tot vincitori). Per finire: chi scrive vorrebbe esprimere una raccomandazione a quelli fra i suoi lettori, se ce ne sono, che continuano a rappresentarsi i problemi della scuola italiana con i ricordi del loro liceo (il che è una debolezza comune di cui non occorre pentirsi troppo se quegli anni ci dicono ancora qualcosa di importante); la raccomandazione è di assumere l'obbligo di leggere questo Rapporto, che tra l'altro è, come i precedenti, scritto con chiara vivacità, per intendere senza nostalgie o deprecazioni idealiste la complessità del sistema scuola e quell'intreccio società-scuola che va sempre più pensato con in testa qualche ideale ma anche molta buona informazione. Franco Rositi
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