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Meraviglioso racconto di Cechov. Il reparto n.6 è un capannone abbandonato dove, in pessime condizioni igieniche, sono stati ricoverati pazienti psichiatrici che di fatto non vengono mai visitati dal medico dell'ospedale, né possono uscire dall'ospedale, diventando dei prigionieri da tutti ignorati ma anche temuti. Finché un giorno il medico-filosofo protagonista parla ad uno dei pazienti, scoprendo così una persona piacevole ed intelligente, con cui il medico avrà piacere di parlare e avere conversazioni anche altre volte. Il racconto è una forte denuncia al sistema sanitario russo per quanto riguarda i pazienti psichiatrici e allo stigma da sempre esistito anche da parte della società nei loro confronti. Un tema davvero importante e sentito anche attualmente trattato con estrema sensibilità da Cechov. Veramente stupende e toccanti le descrizioni dei pazienti, racconto consigliatissimo.
E se il malato abitasse l'edificio della saggezza, dell'unica lucidità possibile in grado di leggere a fondo nelle meschine e scadenti consolazioni del senso, dell'ordine? La mente, il pensiero, tracciano ancora un confine tra l'uomo e l'animale e permettono al primo di sentire il divino, l'impalpabile, la trascendenza, quell'oltre oscuro che atterrisce e viene lo stesso sfidato, il senso di vicinanza alla morte. Chi è Gromov, il tizio sofferente di manie di persecuzione che incontriamo nelle pagine? Sarà lui a urlare a Ragin, il medico, d'avere solo un contatto teorico con la vita: "Non avete veduto la vita, non la conoscete per niente". Siamo in uno squallido manicomio, ma colmo di anime stupende, siamo in una società che li ha rinchiuse lì, come vuoti e pericolosi oggetti orma senza cittadinanza, come gettate in un pozzo d'oblio senza minime possibilità di risalita. E tuttavia sarà da quella mura tristi che il medico che narra la storia toccherà la vera stoffa del sensibile incarnato, la vita scavata e sofferta di anime salve forse proprio perché meravigliosamente perse. Al punto che gli eventi precipiteranno facendo finire anche lui lì dentro, in quell'incredibile e rozza corsia di internati. Dirà non a caso Ragin: "La mia malattia consiste in questo, che in vent'anni ho trovato in questa città un solo uomo intelligente, e quest'uomo è un pazzo. Io non ho alcuna malattia". Un umano rovesciato in luci di tenerezza magnifica, riflessioni altissime che scuotono come fruste di verità: "La maggioranza delle persone disprezza le sofferenze. Ma disprezzarle significa disprezzare la vita stessa, poiché tutta l'esistenza dell'uomo consiste nella sensazione del freddo, degli oltraggi, delle privazioni e della paura amletica della morte. In queste sensazioni è tutta la vita". Uno dei vertici indiscutibili dell'uomo e del medico Cechov. L'enorme amore per la vita anelato al punto da impazzirne. E la società dei "sani" condannata a una vanità miserabile. Superbo!
Perché questo racconto non sia più famoso, proprio non ne ho idea. Se il tema più evidente é quello del sottile limite presente fra pazzia e normalità, le discussioni fra Andrei Efimyic e Ivan Dmitric vanno molto più in profondità, legando il nostro comportamento pratico e considerazioni esistenziali in modo strettamente logico. I pazzi, forse, ci permettono di capire che la società non ci considera ancora tali, ma che potrebbe anche cambiare idea. Le domande che Cechov fa sorgere in noi sono di un attualità oggettiva nei rapporti quotidiani con gli altri (e con noi stessi). Forse per questo il racconto non ha tutta la fama che meriterebbe: o lo si apprezza, ma rimandone un pò sconvolti, si preferisce allontanarsene o non lo si considera e si passa oltre.
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