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C'era aspettativa intorno alla pubblicazione del recente saggio di Bruno Zanardi, e l'aspettativa non è stata tradita. È un libro bello e sgradevole, intelligente e urticante, certamente è e sarà un libro utile. Zanardi riprende un tema centrale delle sue riflessioni dell'ultimo decennio "intorno al restauro" il pensiero e l'azione di Giovanni Urbani e lo mette a confronto, per la prima volta in modo sistematico, con la teoria del restauro di Cesare Brandi. Il "racconto" (così lo definisce l'autore) parte dall'inizio del rapporto fra il primo direttore dell'Istituto centrale del restauro (Brandi) e uno dei primi allievi della Scuola per restauratori (Urbani) e prosegue a indagare sul loro percorso professionale e intellettuale, fino a individuare il punto di partenza e il tracciato della diversa evoluzione del pensiero di ciascuno dei due attorno al comune interesse per il restauro e la conservazione del patrimonio artistico in Italia, e non solo.
Si tratta di un'operazione critica tutt'altro che scontata e certamente coraggiosa, condotta da Zanardi con un'abilissima regia nella scelta dei testi di Brandi e di Urbani proposti nel volume. Le citazioni incalzano il lettore in un dialogo intenso e sempre più serrato, fino a portarlo forzatamente ad abbracciare la tesi che l'autore sostiene da molti anni: la maggiore adeguatezza dell'approccio globale e sistemico di Urbani rispetto a quello prevalentemente estetico di Brandi, alla luce delle mutate esigenze conservative del patrimonio dopo il boom economico italiano degli anni sessanta, pur riconoscendo l'autore a entrambi il merito di essere stati i massimi teorici del restauro del Novecento.
Zanardi ha certamente ragione nel volere provocatoriamente sfatare quanto di mitico e quasi mistico si è addensato nel corso dei decenni attorno alla teoria, sente l'esigenza di rileggere il fondamentale testo di Brandi nella sua dimensione storica e non come un testo sacro, astorico, eterno e immutabile, denunciando con lucidità (ma anche con esagerata faziosità) gli abbagli cui può aver condotto in alcuni casi tale approccio nella sua applicazione pratica. Come ho avuto modo di constatare più volte nel settennato della mia direzione all'Icr, soprattutto durante le missioni all'estero, la teoria andrebbe utilizzata e trasmessa come uno strumento di orientamento, come una bussola, non come il Vangelo o il Corano.
Ma l'aspetto davvero originale della rilettura di Brandi, proposta da Zanardi attraverso il filtro del pensiero di Urbani, consiste nell'aver messo in evidenza con chiarezza la fragilità (secondo l' autore) del cosiddetto "restauro scientifico" (cardine, come è noto, della missione istituzionale dell'Icr fin dalla sua fondazione, nel 1939, come argine alle integrazioni artistiche dell'immagine), perché anch'esso soggetto, in realtà, al "gusto dell'epoca", gusto che, al momento dell'inizio della Scuola per restauratori e dei primi interventi eseguiti dall'Istituto sotto la direzione di Brandi, era il "gusto dell'arte astratta", cioè della produzione artistica di quegli anni.
La novità dell'affermazione di Zanardi non consiste tanto nel collegamento fra restauro e gusto dell'epoca, aspetto più volte sottolineato, per esempio, da Alessandro Conti, Paolo Montorsi, Giorgio Bonsanti, ma nell'aver individuato proprio nel diverso approccio critico intorno all'arte contemporanea l'inizio della divergenza teorica fra Brandi e Urbani.
Nello stesso giro di anni in cui Brandi pubblica Segno e immagine (1960) e la monografia su Burri (1963), Urbani stronca l'artista umbro (Burri: una questione di eleganza, in "Il Punto", 1930, V, n. 30) e decide poco dopo (1964) di interrompere la sua collaborazione con il settimanale romano e la sua attività di critico militante, sottolineando così il suo divorzio ideologico dalla produzione artistica del tempo presente, che, invece, continuerà a suscitare l'interesse dello storico dell'arte senese. È in questo momento che va fissato, secondo Zanardi, il punto di partenza delle "due vie di Brandi e Urbani (
) ormai divenute tra loro completamente indipendenti". A supporto della sua tesi di nuovo, la superiorità del pensiero di Urbani rispetto a quello di Brandi anche nel campo della storia dell'arte, e dell'arte contemporanea in particolare l'autore cita celeberrimi testi (celeberrimi in sé, non solo perché oggetto dell'interesse di Urbani) di Hans Sedlmayr (La rivoluzione dell'arte moderna, 1955; Garzanti, 1958), Edgar Wind (Arte e anarchia, 1963; Adelphi, 1966), fino ai contributi di Giorgio Agamben (L'uomo senza contenuto, 1970; Quodlibet, 2005) e di Jean Clair (La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura, Skira, 2008; cfr. "L'indice", 2009, n. 4), le cui posizioni segnano le diverse tappe di una linea di pensiero che si consolida nel corso della seconda metà del secolo scorso in un giudizio negativo e senza appello sull'arte di oggi. Questo, secondo Zanardi, dimostrerebbe come il modo di vedere il problema da parte di Urbani non rimanga "storicamente consegnato agli anni in cui nacque".
Ora, non c'è dubbio che gli articoli di Urbani sull'arte contemporanea siano ricchi di stimoli e, proprio perché in controtendenza rispetto alla maggior parte della critica di quegli anni, diventino per lo storico di oggi particolarmente interessanti per acume e intelligenza di visione. Sandra Pinto, ad esempio, a proposito della memorabile mostra su Kazimir Malevic della Galleria d'arte moderna del 1959, cita un articolo di Urbani comparso su "Il Punto" del 23 maggio, evidenziando come fuori dal coro caotico della critica ci fosse stato "qualcuno (
) capace di rilanciare e alzare di molto la posta. Sto parlando di Giovanni Urbani, storico, non critico", e ritenendo la sua definizione del ruolo "drammaticamente riproduttivo" del pittore russo l'unica che avesse resistito alla verifica del tempo (Sandra Pinto in Da Giotto a Malevic, catalogo della mostra alle Scuderie del Quirinale, Electa, 2004). Zanardi ha compiuto, perciò, un'opera egregia nel proporre al lettore una selezione degli scritti di Urbani in materia, molto meno noti di quelli sulla conservazione e il restauro e di più difficile reperibilità, che è e sarà di grande utilità per gli studiosi.
Lascia più perplessi, invece, come l'autore utilizzi gli strumenti dello storico, forzando i dati per confermare la sua tesi. Perché gli scritti di Brandi debbono essere inquadrati storicamente e quelli di Urbani no? Solo perché, successivamente, Agamben, Clair, Pinto hanno espresso posizioni simili? È una ragione sufficiente e valida? Perché, a proposito dell'apertura di Brandi per l'arte di Burri dopo un primo momento di rifiuto, Zanardi riferisce come questa inversione di rotta da parte dello storico dell'arte senese fosse stata il frutto dell'amicizia con Argan e soprattutto dell'opinione dell'amico pittore Giorgio Morandi, sottendendo in ciò un suo giudizio negativo di sapore moralistico per essersi, presumo, discostato dal parere di Urbani?. Cambiare idea è un segno di vitalità e curiosità intellettuali; anche Longhi, ad esempio, modificò la sua considerazione su Picasso, inizialmente negativa (1932), in una cauta apertura, vent'anni dopo (1953).
Sul tema "a favore" e "contro" l'arte contemporanea sono stati scritti metri lineari di bibliografia, che entrano nel vivo della produzione artistica del tempo presente disegnando un universo complesso, ma Zanardi sceglie a priori unicamente quanto collima con ciò che vuol dimostrare, riducendo la complessità alla semplificazione di una visione manichea, con vincitori e vinti, buoni e cattivi; attiva, insomma, una partita a due fra Brandi e Urbani che i due protagonisti del libro si sono ben guardati dal voler giocare nella loro vita reale. È l'autore che in realtà vuole giocare questa partita per uno scopo più sottile che non ha a che fare, se non tangenzialmente, con le "cose della storia dell'arte" (Longhi). La diversa posizione di Brandi e Urbani sull'arte contemporanea e, in particolare, sull'astrattismo dal 1960 in poi sarebbe, secondo Zanardi, la causa prima del cambiamento sempre più marcato delle loro reciproche posizioni intorno al restauro: "Per Urbani l'arte contemporanea non ha più alcuna continuità con gli elementi veritativi dell'arte del passato (
). Questo fa sì che la cura e la custodia dell'arte del passato, in quanto patrimonio finito e non più rinnovabile, siano divenute insuperabile responsabilità a cui il destino chiama l'uomo d'oggi (
) egli perciò riprende a tempo pieno l'originario ruolo di restauratore (
ed) evidenzia i limiti concettuali del restauro estetico (
) rivendicando alla tecnica un ruolo creativo pari a quello dell'arte del passato" (corsivo mio).
Sappiamo tutti come da questa premessa, che Zanardi analizza e mette in luce egregiamente, l'evoluzione successiva del pensiero e dell'azione di Urbani, soprattutto durante la sua direzione dell'Icr (1973-1983), abbia davvero fondato l'odierna scienza della conservazione, cominciando a delineare quella rete di interazioni indispensabili fra scienza e tecnica, che avrebbe necessariamente allargato la visione delle esigenze conservative dalla scala del singolo manufatto a quella di insiemi di beni georeferenziati e intrinsecamente vincolati a un territorio con determinate caratteristiche ambientali e antropiche. Un esempio notissimo della progettualità di Urbani in questa direzione è il Piano pilota per la conservazione dei Beni culturali in Umbria del 1976, delle cui vicende Zanardi racconta nel suo saggio le ragioni della mancata ricezione da parte degli organi politici e amministrativi nazionali e locali alla fine degli anni settanta.
L'insuccesso nel 1976 del Piano pilota va attribuito, condivido in questo l'opinione di Zanardi, allo scarto fra la lungimiranza del progetto dell'allora direttore dell'Icr e la visione parziale e culturalmente miope in materia della classe politica, allora come oggi. Questo, però, nulla toglie al peso culturale della figura di Urbani, e la strada da lui segnata non è costellata solo di fraintendimenti o distorsioni del suo pensiero. Basti pensare all'art. 29, comma 1 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004), nel quale per la prima volta il legislatore, recependo proprio il pensiero di Urbani, ha introdotto i termini di "conservazione", "prevenzione", "manutenzione", "studio" come parte integrante di una programmazione coerente e coordinata di attività di cui il restauro è solo uno degli aspetti. Basti pensare a quanto sia fortemente presente ancora oggi, nei tecnici dell'Icr, l'eredità di Urbani anche in dettagli solo apparentemente secondari, dal modo di strutturare una relazione di restauro a quello di archiviare la documentazione fotografica e grafica. Urbani ha insegnato un metodo che non è andato perduto. Non è vero neppure, come sostiene Zanardi, che Urbani non abbia avuto allievi: e gli allievi dell'Istituto? E lo stesso Zanardi? E restauratori eccellenti come Mara Nimmo, Lidia Rissotto, Anna Marcone, Francesca Romana Mainieri, per citare solo alcuni dei nomi che hanno diffuso attraverso l'insegnamento il pensiero di Urbani?
La visione apocalittica e catastrofista di Zanardi, anche se può contenere frammenti di verità, non giova a nessuno (neppure alla memoria di Urbani) e lo porta, ad esempio, a non accorgersi che il nuovo nome dell'Icr, trasformato in "Istituto superiore per la conservazione e il restauro", non è questione di definizioni e frutto di "sciatteria istituzionale". Se l'autore avesse letto il decreto ministeriale uscito successivamente (ottobre 2008), che specifica compiti e finalità dell'Istituto collegati al nuovo nome, si sarebbe accorto che la modifica è ben più importante e strutturale, perché eleva l'Iscr al rango di Istituto dotato di autonomia speciale, restituendogli in parte il ruolo che gli era stato sottratto nel 1975 con l'equiparazione fra l'allora Icr e l'Opificio delle pietre dure.
Purtroppo, anche in questo libro Zanardi non riesce a resistere alla tentazione del laudator temporis acti e della conseguente mitizzazione del passato caratteristica comune e diacronica di tutti i tecnici dell'Icr rappresentato dalla figura di Urbani; per farlo, deve trovare un mito da distruggere e se la prende con la maggior fortuna critica del pensiero di Brandi: tutto il saggio è costruito su questo "partito preso", su questo ragionare per coppie di opposti (Urbani / Brandi, arte del passato / arte contemporanea, l'"Italia poverissima e bellissima degli anni cinquanta" / l'Italia inquinata del post boom economico degli anni sessanta). È questo il limite del saggio come metodo storico, ma è anche la ragione della sua indubbia utilità come provocazione e stimolo per una politica culturale, anzi per un'"ecologia culturale" (Zanardi) più cosciente di quella attuale.
Caterina Bon Valsassina
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