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La poesia di Annamaria De Pietro costituisce un riuscito esempio di come anche l'inflazionato e disinnervato esercizio della scrittura in versi possa trovare nuova, originalissima linfa dal meditato connubio di cultura, mestiere, ironia, intelligenza. In più di trecento quartine, talvolta «caudate scodinzolanti», severamente ligie alla più collaudata tradizione letteraria (endecasillabi, rime ABBA, ABAB...), l'autrice elabora un suo «laboratorio malcerto» di esplorazione esistenziale, su tutti gli argomenti possibili, dello scibile e dell'ignoto: dai sentimenti, ai ricordi, agli oggetti, alla storia, alla scienza. Nel tentativo di far quadrare un cerchio, di individuare il grimaldello di un pi greco che riesca a dare significanza al «rettangolo inesatto» del nostro vivere. Quartine di non facile lettura e non subitanea comprensione, giustificate spesso più da assonanze, ritmi, analogie visive che dalla coerenza di una logica interpretativa: e a questa difficoltà sembra voler soccorrere la poetessa con un commento (differenziato anche graficamente) posto in calce a ciascuna di esse. Glossa che talvolta risulta più fuorviante e immaginosa della stessa poesia, quasi con l'intenzione esplicita di sconcertare il lettore, obbligandolo a fermarsi, a rimeditare, a trovare da solo una qualche illuminazione che lo aiuti a penetrare il significato - fulmineo e nascosto - che si cela nella lapidarietà, gnomica, sentenziale, dei versi. «Un'epitome del cosmo» orgogliosamente provocatoria, quella che propone Annamaria De Pietro, sfidando un eccesso di intellettualismo, un'esibizione quasi compiaciuta di perfezione stilistica, spavaldamente e sarcasticamente controcorrente, come in questa «dichiarazione di poetica»: «Non vada cinta della veste sciatta/ buona articolazione d'ossi e vene -/ ne segua augusta veste le serene/ corrispondenze per misura esatta».
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