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La mia percezione di Bali è stata scossa da un libro di qualche anno fa: Il turista nudo (Adelphi, 2006) di Lawrence Osborne. Lo scrittore inglese definisce l’isola una “Disneyland indù” e spiega come l’immagine di una “Bali magica”, perla di antico induismo giavanese sopravvissuta all’islamizzazione, sia un “artificio coloniale” nato nel corso del Novecento per opera di artisti e antropologi come Walter Spies, Margaret Mead e Gregory Bateson, ma anche Clifford Geertz.
Al di là delle discoteche di Kuta, Bali è un luogo così pregno di sacralità e cultura fuori dal tempo, che per l’occidentale di passaggio è difficile credere che tutta quell’arte, ritualità, sensibilità estetica diffusa, siano solo il prodotto di una tradizione reinventata sulla scia dell’esotismo. Sarebbe interessante sapere che ne pensa Luigi Ontani. L’artista bolognese, attivo da diversi decenni e omaggiato da retrospettive al MOMA e al castello di Rivoli, trascorre buona parte del suo tempo sull’isola producendo opere venate di orientalismo (uso la parola nell’accezione neutra, senza il disprezzo che la circonda dall’uscita di Orientalismo di Edward Saïd): maschere e figure bizzarre in cui Ontani ibrida il proprio stile, già di per sé imitativo e parodico, con quello dell’arte balinese. Per l’editore Humboldt, Emanuele Trevi è andato a trovarlo, insieme alla fotografa Giovanna Silva, nello studio indonesiano. Quando arrivano, Ontani sta preparando un Ogoh-Ogoh, sorta di carro allegorico che dovrà percorrere l’isola in occasione di una processione alla fine della quale verrà bruciato. Integrato alla vita balinese, Ontani produce il proprio feticcio rituale e Trevi e Silva lo seguono: il primo con un bel testo che ne racconta la preparazione, con lo stile ammaliante di uno scrittore che con magia, mitopoiesi ed esoterismo va molto d’accordo, ed è quindi vicino alla sensibilità di Ontani. Le foto di Silva documentano i fatti e si presentano virate a colori legati al simbolismo cromatico dell’isola. Trevi cita anche la coppia Mead-Bateson ma senza dubitarne: ciò che cercano scrittore, artista e fotografa non è lo scetticismo. Cosa andasse cercando 150 anni prima Rimbaud a Giava se lo chiede invece lo scrittore e critico letterario statunitense Jamie James in un libro, Rimbaud a Giava, recentemente pubblicato da Melville edizioni. Prima di sparire in Africa Rimbaud partì per le Indie orientali arruolandosi nell’Esercito Coloniale Olandese, da cui disertò poco dopo l’arrivo a Batavia per fare non si bene cosa: perdersi nella giungla, girovagare, abbandonarsi a visioni. Intorno a tale buco biografico James congettura ipotesi, muovendo da episodi noti della vita del poeta per terminare in un micro-saggio sull’orientalismo che proprio in quegli anni impazzava nella capitale francese. Che Rimbaud fosse un adepto di cineserie è piuttosto dubbio, quello che è certo è che, a canale di Suez appena concluso, l’oriente stava smettendo di essere l’Altrove per antonomasia. Se Rimbaud si è buttato verso quei lidi, secondo James, è perché cercava gli ultimi bagliori d’incanto: gli stessi che forse ancora brillano negli occhi di Ontani, Trevi, Silva. Ma forse non in quelli di Osborne.
Recensione di Carlo Mazza Galanti
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