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Romanzi - Luigi Di Ruscio - copertina
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Romanzi

Descrizione


Luigi Di Ruscio è stato poeta e narratore. Dagli anni cinquanta è stato subito riconosciuto come un talento violento, dissacrante, che si è presto smarcato dall'etichetta sbrigativa di poeta-operaio per costruire una possente, vorticosa avventura letteraria che comincia dentro l'Italia ferita del dopoguerra. Quando Di Ruscio, nel 1957, lascia le Marche per trasferirsi in Norvegia, dove ha lavorato e costruito una famiglia, le sue prose si fanno ancora più intense e febbricitanti. La sua lingua, esiliata, si apre, si scardina, si reinventa. Il ritmo si fa convulso e netto. Non meno di scrittori come Gadda, D'Arrigo, Roversi e Pagliarani, Di Ruscio finisce per dare corpo a opere che, come dice Andrea Cortellessa, "recano su di sé le macchie, gli urti, le ferite della storia: termometri sempre in azione, segnavento che non si fermano mai; e che, così a lungo esposti all'infuriare degli eventi, si rivelano anche accumulatori, giacimenti, immensi archivi viventi d'una storia che continua a passare senza essere mai passata del tutto". "Palmiro", "Cristi polverizzati", "Neve nera" e "Apprendistato", raccolti per la prima volta insieme in questo volume, ben corrispondono a quelle che l'autore ha chiamato "memorie romanzesche" - una complessa, beffarda immagine dell'Italia degli anni cinquanta, l'unica Italia che lo scrittore ha di fatto conosciuto.
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Dettagli

2014
12 marzo 2014
551 p., Brossura
9788807530319

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claudio orlandi
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Luigi Di Ruscio (1930-2011)tra i più importanti autori del secolo scorso, per certi aspetti unico.da scoprire anche nella sua dimensione poetica. Da leggere ed amare.

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Voce della critica

  Palmiro (uscito in prima edizione nel 1986), Cristi polverizzati (2009), Neve nera (2007), il seminale e ora riscoperto Apprendistato (1977): le quattro opere in prosa di Luigi Di Ruscio raccolte in questo volume bellissimo e necessario, forse non per consegnare l'autore al grande pubblico ma per propiziare qualche incontro in più, a partire dalla base materiale di una buona distribuzione e visibilità, sono le concrezioni maggiori di uno scrivere forsennato e inesausto, concentrato simultaneamente sul mondo e su di sé, portato avanti per decenni con incredibile fedeltà ai propri temi e alle proprie ossessioni. Scrivere o, piuttosto, come lo definisce la voce inestricabilmente narrante e autoriale che sentiamo sulla pagina, "iscrivere" e "sottoscrivere"; ed è la stessa voce intemperante e smodata che tenta ripetutamente di individuare il genere di questa scrittura, modificando in vari modi l'etichetta romanzesca ("romanzo memoriale", "romanzo continuo"), senza negarne mai, con la spiccia franchezza che s'impara presto ad amare, la radicale e istintiva simpatia anarchica per il caos ("questo casino scritto" se non addirittura "queste cazzate"). Caos che però, ed è il secondo polo, fondamentale per la creazione dell'energia che circola negli scritti di Di Ruscio, viene lavorato nel corso del tempo con un lungo esercizio, che se sarebbe folle chiamare di ordinamento, va senz'altro inteso come distinzione, stabilimento di livelli, piani, distanze. Tempo, paziente esercizio furibondo, e distanza sono i tre pilastri dell'operare di Di Ruscio. Sono proprio le opere a raccontare, e a biografare miticamente, la vita dell'"iscrittore". Nato nel 1930, cresciuto in pieno fascismo nell'immobile provincia marchigiana (la "Marca sporca", quella tendente all'Abruzzo), con il vicolo di un paesino e la sua parlata a fare da petite patrie, Di Ruscio fu ragazzino in tempo di guerra, militante comunista subito dopo, vorace lettore prima casuale, poi sempre più ragionato, infine disperato nella palude degli anni cinquanta. Nel 1957 emigra in Norvegia, dove trova un posto di operaio a Oslo, e si sposa con una donna che è il contrario di lui e da cui ha quattro figli (questo matrimonio ossimorico, scintillante e prolifico ha un posto notevole anche dal punto di vista simbolico nella serie di unioni tra opposti, bruniane ed eraclitee, che animano le sue opere). Di Ruscio rimane a Oslo fino alla morte, avvenuta nel 2011. Questa partenza, sradicamento reale che diventa salto filosofico, ha un peso gigantesco non solo sulla vita, ma anche sul progetto e sulla grana della scrittura. L'allontanamento dalla sua terra odiosamata, e il conseguente sguardo "da fuori" (su cui insiste Cortellessa nell'ottimo saggio in coda al volume), gli hanno permesso o lo hanno costretto a reinventare terra e memoria nella lingua, un italiano fortemente connotato in senso regionale e addirittura idiosincratico, e a fare degli anni quaranta e cinquanta lo scenario di base, mitizzato ed enormemente espanso, di tutto il suo scrivere. Ma nello stesso tempo hanno fatto sì che egli avesse un'arma in più per divincolarsi dalla condizione esistenziale e poetica che vissero gli altri, i "rimasti", a partire dalla fine degli anni cinquanta, e che usando un titolo di Ottiero Ottieri potremmo chiamare "irrealtà quotidiana". Così non ha torto "il sottoscritto" che "iscrive" questi romanzi (registrato, con forte instabilità onomastica, anche come Palmiro, Smerri, Luigino, Gino) a scegliere per sé il titolo di "ultimo dei neorealisti", almeno se si deve seguire Deleuze quando afferma che il neorealismo era una risposta arditamente creativa alla necessità di "credere nel mondo". Vediamolo, allora, il mondo di questi libri, con i personaggi che lo popolano e il narratore-iscrittore (nonché fotografo) che lo testimonia, reinventandolo continuamente. È un mondo che investe con prepotenza i sensi, che consuma chiedendo di essere consumato: un mondo commestibile, dove il mangiare mostra insieme l'aspetto paradisiaco ("il sottoscritto" che si nutre di erbe durante i suoi interminabili vagabondaggi per le colline), quello picaresco (la compagnia di coetanei che saccheggiano un albero di fichi, insieme per l'ultima volta prima della dispersione per il mondo), e quello infernale (la gatta che divora i cuccioli appena partoriti). Un mondo che gode del godimento di chi lo abita (come si vede bene in alcuni splendidi, pur se molto maschili, personaggi di donna carichi di un robusto erotismo cosmico: Nunziata in Palmiro, Palmina, e in un certo senso anche Carola in Cristi polverizzati). "Il sottoscritto", poeta matto e disperato, lo percorre a tutta velocità, salendo e scendendo, anzi "precipitando", secondo una continua oscillazione tra alto e basso che si può vedere come cifra o emblema complessivo di tutto il suo progetto ideale, e che assume volta per volta connotazioni paesaggistiche, dinamiche, concettuali, stilistiche, sessuali; così come a tutta velocità l'iscrittore afferma di battere a macchina, facendo un baccano tremendo con la sua vecchia Olivetti. Di Ruscio, insomma, ha scritto velocissimamente per tutta la vita sempre lo stesso libro. Ma basta girare un angolo e il mondo furente, tutto fisico e tutto psichico, mostra nell'operato umano la sua faccia più ottusa, manipolatoria, crudele e repressiva: memorabili le moltissime pagine dedicate al conformismo degli anni cinquanta, al dominio della Dc, al fascismo che non finisce, al disastro del partito comunista, e via via fino alle missioni di pace benedette da D'Alema e alla sofferenza fatta spettacolo di papa Wojtyla. Di Ruscio costruisce splendide gallerie di ritratti, anzi, si può dire che il ritmo della sua narrazione sia dato dalla sintesi delle "volate" del protagonista e degli incontri che gli capitano mentre è trascinato, più di quanto non si muova per volontà propria, per il mondo. C'è però un'altra scala, altrettanto lontana dal romanzesco medio, su cui conviene leggere Di Ruscio per capirlo, seguendo non più il tempo narrato o iscritto, ma quello dell'iscrizione o elaborazione dell'opera. Infatti ogni segmento del passato viene riassorbito dalla scrittura nel tempo del suo farsi, che a sua volta è lungo, stratificato, e tematizzato nei romanzi, formando all'interno di essi una specie di grande piega. In questo tempo, interi decenni, si svolge la seconda fase, la più lunga e complessa, dell'"apprendistato" di Di Ruscio, dove si vede bene il suo hegelismo eretico e nient'affatto inconsapevole. Non è forse la "concupiscenza" che muove l'autocoscienza al rapporto con il mondo nella Fenomenologia dello spirito, tanto citata su queste pagine? E la costruzione dell'opera, con disciplinata indisciplina, non equivale forse a dare consistenza a tutta quella "bramosia" (termine chiave di Palmiro), recuperandone le manifestazioni come momenti (non semplici materiali) nell'edificazione dell'identità, personale e collettiva? Certo l'Uno a cui tenderebbe questo processo viene sempre contraddetto, e il furore rimane inconciliato. Ma proprio per questo Di Ruscio potrebbe essere un campione di quel pensiero, anche artistico, che pensa "dialetticamente e non dialetticamente insieme", come scriveva Adorno. Un hegeliano selvaggio che ha vegliato su di noi, dal grande Nord.   Federico Francucci    

 

 

 

 

 

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