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recensione di Morello, R., L'Indice 1996, n. 5
Leggere Musil significa avventurarsi in un territorio sconosciuto in cui nulla appare scontato o frutto di facili accomodamenti. Le perplessità suscitate talvolta dall'uomo svaniscono di fronte alla genialità dello scrittore che non soltanto mette in discussione convinzioni e certezze consolidate, ma ci rende più consapevoli dei nostri limiti intellettuali e umani. La distanza che oramai ci separa da Musil va certo misurata in una prospettiva storica, ma non pone seri problemi di metodo: lontani possono apparire gli obiettivi polemici, non la sostanza del discorso, il vigoroso rappel à l'ordre, il bagno di chiarezza intellettuale.
Quando ad esempio egli scrive, verso la fine del celebre saggio "Sulla Stupidità", che "di tanto in tanto siamo tutti stupidi; siamo costretti ad agire alla cieca, almeno in parte, altrimenti il mondo si fermerebbe", o quando parla con malcelata simpatia della "stupidità onesta e schietta" che "ha molto in comune con le guance rosee della vita", contrapponendola polemicamente alla "stupidità superiore piena di pretese", quella che non deriva dalla mancanza di intelligenza, ma dall'uso distorto e arrogante della medesima, esortando a stanarne la presenza anzitutto in noi stessi, senza aspettare di "riconoscerla dalle grandi epidemie storiche", comprendiamo bene quale sia il nesso che, nelle sue pagine, collega strettamente etica ed estetica. Infatti la stupidità viene poi accostata al Kitsch, all'uso distorto e fuori luogo del bello che costituisce una delle minacce permanenti dell'arte moderna.
Di tutto ciò rendono conto i due volumi di "Saggi e Lettere" curati con autorevolezza e competenza da Bianca Cetti Marinoni. Contengono un'ampia scelta di scritti musiliani, compresi in un arco di tempo che va dal 1901 alla morte (1942). Alcuni saggi erano già noti al pubblico italiano in edizioni precedenti (Studio Tesi, SugarCo), altri invece sono inediti.
Nell'opera di Musil il saggio è anzitutto una metafora di quella forma di accostamento aperto e non sistematico alla realtà, contrapposta all'univocità dei filosofi - i "violenti" che vogliono mettere la camicia di forza al mondo - che nell'"Uomo senza qualità" ha il nome di saggismo, l'utopico tentativo di conciliare il celebre binomio di "anima" ed "esattezza". Ciò si traduce in una modalità della scrittura letteraria che trasforma il romanzo in un tentacolare intreccio di narrazione e riflessione. Se, come si dice nell'"Uomo senza qualità", "in letteratura nulla è più difficile che descrivere un uomo che pensa", Musil esperimenta proprio un tipo di raffigurazione in cui "il pensato non è ancora sciolto dal pensante e dalle sue emozioni", come scrisse Claudia Monti anni or sono.
I saggi musiliani sono esperimenti di pensiero. La forma del saggio appariva allo scrittore austriaco una sorta di ibrido, priva di un autonomo valore estetico: "Non sono un filosofo, neppure un saggista, sono un poeta". Il saggio per lui aveva una funzione conoscitiva, doveva servire a compiere una rigorosa ricognizione di tutto ciò che tende a irrigidirsi in un sistema, scomporre e analizzare ogni aggregazione precostituita della vita e del pensiero della sua epoca, smascherando la falsificazione insita in ogni riduttiva semplificazione della complessità del reale. Proprio per questa ragione i saggi non offrono l'immagine di una variopinta ma in fondo superficiale molteplicità di interessi - già Grillparzer nell'Ottocento affermava che la poesia non deriva dalla molteplicità della 'Bildung', ma dalla concentrazione unilaterale e maniacale su un punto -, ma suggeriscono piuttosto la tendenza ossessiva a distinguere, delimitare e ridisegnare continuamente i confini del proprio mondo intellettuale.
In una lettera a Scholem, Walter Benjamin definiva Musil "più intelligente del necessario" e Musil stesso lamentava di essere uno spirito "troppo poco pratico", troppo incline all'analisi e all'autoanalisi. Se è così, egli incarnava in modo emblematico uno dei tratti distintivi del carattere "austriaco", quello che Hofmannsthal nella celebre tabella del 1917 dal titolo "Prussiani e Austriaci" chiamava "ironia sino alla dissoluzione".
Fedele alla lezione dei suoi maestri Mach e Nietzsche, Musil eviterà sino all'ultimo di far riconfluire nella realtà Ulrich e Agathe, i due protagonisti del romanzo. Chiudere il cerchio avrebbe significato fatalmente rientrare nell'alveo della tradizione e tradire la vettorialità di un progetto antisistematico, proteso verso nuove e inesplorate dimensioni della psiche e dell'intelletto. L'Uomo senza qualità infatti è la summa di una realtà che non può più essere abbracciata nella sua interezza, l'epopea di una vita non più vissuta epicamente, nel suo spontaneo fluire, ma dominata dalla riflessione su se stessa e sulla propria irrappresentabilità. Nei saggi Musil ricerca appunto le coordinate, mobili e fluttuanti, di un mondo non più fondato sul senso della realtà, ma su quello della possibilità, in cui non opera una soggettività saldamente fissata, sostanziale, ma un mero aggregato di forze in continua evoluzione.
Come recensore Musil non si ferma mai agli stereotipi culturali della sua epoca, il valore di un'opera d'arte non deriva per lui dai contenuti ma dal modo in cui l'autore sente e pensa le connessioni essenziali della vita: l'ammirazione per Büchner, Robert Walser o Kafka - e questo sin dai primissimi anni del Novecento - testimoniano la sua attenzione per il nuovo, non meno dell'ironia riservata alle opere più "culinarie" di autori dell'epoca (da Wildgans a Werfel).
Le lettere infine testimoniano la tensione assoluta verso una sempre più probabile conclusione del romanzo, l'opera di tutta una vita che sembra alla fine sfuggirgli di mano. Il profondo rigore verso di sé manifestato dallo scrittore spiega e giustifica in qualche modo l'analoga intransigenza rivolta agli altri, la difficoltà ad accettare i compromessi che la società letteraria imponeva e il conseguente sofferto isolamento. Sono lettere che, soprattutto negli ultimi anni, documentano indirettamente il fenomeno dell'emigrazione: se scorriamo l'indice dei nomi, seguendo con l'aiuto delle eccellenti note l'intreccio di relazioni personali che ne derivano, emergerà con chiarezza una fitta rete che collega la cultura mitteleuropea tra le due guerre alle più prestigiose istituzioni culturali americane. La via per la quale la vecchia Austria è diventata tutto il mondo risulta storicamente correlata all'esilio, al disperdersi di un'irripetibile stagione culturale in tanti rivoli che hanno fecondato e alimentato altre culture grazie all'impronta di un habitus intellettuale inconfondibile.
Convinto che la genialità fosse un elemento qualitativo e un "valore internazionale", che ogni letteratura al suo livello più alto fosse "insieme nazionale e internazionale", Musil si sentiva tuttavia personalmente assai meno cosmopolita di tanti amici e connazionali, come Blei o Broch. Nella precarietà del soggiorno ginevrino, tra ansie per la propria personale incolumità e per la sopravvivenza delle sue opere, egli sente fortemente di appartenere al destino della cultura tedesca. A Broch, che lo esortava a raggiungerlo in America dove avrebbe potuto ottenere un posto all'università, Musil replicava di "sapere qualcosa in più e qualcosa in meno di ciò che occorre per insegnare".
Sapeva in sostanza di essere un poeta, anche se stanco e sfiduciato, un ironico, disincantato ma irriducibile indagatore di una totalità infranta che aveva cercato di racchiudere in un libro. Sarà anche vero che la figura di Musil emerge da queste lettere non priva di ombre, eppure l'ambivalenza del carattere, la vulnerabilità alle piccole nevrosi quotidiane, persino la freddezza, l'atteggiamento spigoloso e difficile dell'uomo Musil ci sembrano talmente prive di retorica e in fondo simili alle nostre da risultare assai più simpatiche dell'enfasi patetica con cui Thomas Mann assolveva negli stessi anni la propria missione di "grande" scrittore.
recensione di Magris, C., L'Indice 1996, n. 5
La prima lettera di Musil, che apre il volume dell'epistolario, è una delle tante che arrivano ogni giorno alle case editrici e anche a chi scrive di letteratura sui giornali: è la rispettosa richiesta di esaminare un manoscritto e di prendere in considerazione la possibilità di pubblicarlo. Anche le lettere che nascono da momenti più drammatici - ad esempio dopo l'Anschluss, con tutte le difficoltà dell'emigrazione e dell'esilio - o si soffermano su motivi di particolare interesse, come i progetti e le stesure dell'"Uomo senza qualità", non sono a una prima lettura molto più avvincenti di quella deferente e insistente proposta del giovane autore.
Questa opacità è anche un pregio dell'epistolario musiliano; le lettere dello scrittore rispondono a immediate esigenze pratiche, alla necessità di chiedere un appoggio, sollecitare una pubblicazione o un pagamento, rispondere a un'osservazione, inviare una parola affettuosa a un amico o ai figli che la moglie Martha aveva avuti nel primo matrimonio. Le lettere degli scrittori sono spesso scritte - intenzionalmente o consapevolmente - più per i posteri che per il destinatario o comunque obbediscono a un'autostilizzazione, tanto più ambiguamente letteraria quanto più l'autore riesce a convincersi di esprimere immediatamente la sua anima. In Musil la civetteria con le profondità e le contraddizioni del proprio io - che a ogni Narciso appaiono sempre giustificate e certe di incontrare la comprensione e la venerazione di critici e lettori, specialmente quando si confessano errori e debolezze - sono ridotte al minimo ed è questo che conferisce alle sue lettere una sobria e ritrosa autenticità.
L'epistolario è una testimonianza quasi impersonale, che grazie alla sua lucidità - in certi momenti alla sua freddezza - fa dell'esistenza di Musil un'esistenza esemplare, quasi un Ognuno contemporaneo, individuo che lo scrittore stesso aveva definito come una sostanza colloidale e informe, che si adatta all'accadere e si modella su di esso anziché plasmarlo. Pure le lettere obbediscono alla logica tentacolare e sperimentale di quel saggismo che, come ricorda Bianca Cetti Marinoni nella sua ottima introduzione, caratterizza l'opera e anche la vita di Musil, in una continua relativizzazione dei punti di vista e delle prospettive concettuali.L'io che scrive queste lettere è Robert Musil, sposato con Martha Marcovaldi, scrittore che fra ristrettezze economiche spinte talora sino all'indigenza scrive uno dei capolavori della letteratura universale e che è insieme il generico uomo senza qualità del nostro secolo, una variabile dipendente da un fluttuante sistema di relazioni.
Le lettere rispecchiano quell'interazione di intelletto e sentimento che costituisce l'essenza di Musil, avverso al puro razionalismo come al pathos sentimentale che lo contesta in nome della vita. Esse documentano con asciutta essenzialità la sua officina narrativa, quella freddezza talora simile all'aridità - le ore passate davanti al foglio vuoto, la paziente attesa dello stile, la resistenza che il romanzo oppone allo scrittore, costringendolo a frequenti ritirate - che permette a Musil di raggiungere vette di altissima poesia al calore bianco, la rarefatta e bruciante epifania dell'"altro stato", assolutezza di Eros e follia che scandisce l'estrema, "ultima storia d'amore", lo sguardo nelle "voragini dell'anima sino a profondità mai raggiunte".
La tensione a una mitica rarefazione dell'esperienza si accompagna a una lucidissima vigilanza intellettuale, in cui l'alta consapevolezza di sé - che indurrà fra l'altro lo scrittore ad accettare e quasi a pretendere come cosa ovvia il sostegno materiale di amici ed estimatori, sino alla fondazione di una società e di un Fondo Robert Musil - si accompagna a un'implacabile autocritica, che lo induce a definire "stupido" il "Törless", destinato a spiacere al normale e tollerante pubblico dei consumatori di romanzi, ma anche agli "intelligenti". La stupidità, cui Musil dedica un saggio fulmineo e memorabile, è una proprietà a doppio taglio. Quella attribuita al "Törless" è l'imperfezione della letteratura sperimentale, fondata sulla simbiosi fra poesia e scienza come l'opera di Musil stesso e di Broch, tentativo che non è ancora perfettamente risolto ma appare l'unica autentica strada poetica del futuro. Altra cosa è lo scrivere "splendido e stupido" degli scrittori "omerici", ironicamente e metaforicamente rimpianti, ma comicamente e stridulamente impossibili nell'età contemporanea, come Sigrid Undset, "zia Omero".
Esemplarmente onesto nelle sue risposte sui rapporti fra letteratura e rivoluzione, che si dimostrano aperte alle esigenze di un radicale rinnovamento politico-sociale ma denunciano l'inesistenza di una letteratura realmente nuova nata dalla rivoluzione sovietica, Musil confuta con cortesia le tesi di Nadler sulla genesi della letteratura dal retaggio della stirpe e smonta inesorabilmente le tesi sull'"austriacità" letteraria anche se rivela interesse per scrittori molto "austriaci" come Saiko e Gütersloh, figure notevoli che nemmeno la diffusa e indifferenziata infatuazione per la Mitteleuropa è riuscita a rendere note in Italia. Musil appare più ambiguo riguardo a singoli autori, dalle valutazioni antitetiche di Roth all'antipatia verso Thomas Mann, nei confronti del quale si alternano stroncatura letteraria, antipatia personale, reverenti richieste di aiuto e schietta ingratitudine.
Musil non è esente dalle risentite invidie che rendono così spesso i letterati e il loro ambiente più meschini di ogni altra consorteria, come quando si lamenta per le tredici righe dedicate da Franz Blei, in un articolo sui migliori libri da segnalare, ai "Sonnambuli" di Broch rispetto alle dieci righe dedicate all'"Uomo senza qualità", oppure quando accusa Broch, così generoso verso di lui, di plagio o, ancora, quando trova che l'espressione "una delle più notevoli opere in prosa negli ultimi decenni", usata da Mann a proposito dell'"Uomo senza qualità", sia troppo poco, specialmente per un'eventuale candidatura al Nobel.
Ma tutto questo si inquadra nelle difficoltà di lavorare e di sopravvivere in quegli anni terribili di dittatura, di fuga, di indigenza, di apocalissi incombente e infine arrivata; non c'è da stupirsi se uno scrittore di genio non è un eroe, non si arruola subito a combattere il Leviatano e chiede ossequiosamente una pensione al Cancelliere austrofascista Schuschnigg.Musil ha rappresentato, con un'intensità poetica senza uguali, il vertiginoso vuoto su cui si posava la realtà del secolo, l'astrazione e la violenza dell'epoca, la mutazione antropologica dell'individuo contemporaneo. Che fosse anch'egli, nella sua esistenza, una delle innumerevoli variabili di quel sistema di relazioni impazzite che è il mondo in genere e che soprattutto era il mondo in quegli anni di catastrofe, non deve stupire.Attraverso i totalitarismi vedeva profilarsi una collettivizzazione dell'umanità, realizzata da un ceto medio sempre più incolto e informe. Non è poco che egli abbia saputo avere l'accanita, ascetica costanza di dedicarsi totalmente al suo libro grandioso e interminabile, "l'opera - com'egli scriveva il 18 novembre 1938 a Viktor Zuckerkandl - di cui sono il padrone e il servitore".
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