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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2004
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L'ho letto appena uscito e l'ho trovato di una forza straordinaria, resa ancora più viva e coinvolgente proprio dallo stile della scrittura di Balestrini già apprezzato senza riserve in altri suoi scritti. Ho voluto rileggerlo dopo Gomorra e riconfermo: bellissimo.
Bellissimo e coinvolgente. Nient'altro da dire, se non che è poco conosciuto.
Un libro davvero molto particolare, la cui peculiarità è caratterizzata dall'assoluta mancanza di simboli d'interpunzione. La storia è interessante e molto ben raccontata anche se può risultare piuttosto snervante leggere un testo e apporre la punteggiatura mentalmente per evitare di saltare da un periodo all'altro privo di alcuna intercorrenza. Un consiglio all'autore: Apprezzo molto il suo modo di esporre un testo. E' una caratteristica accattivante e a mio avviso innovativa (a differenza de -In exitu- di Testori dove c'è un punto ad ogni parola e ciò fa sembrare che il romanzo sia stato scritto da una macchina per cucire), ma che non credo venga apprezzata da tutti. Lo metta qualche simbolo di punteggiatura nel prossimo testo. Si eviterebbe di passare da un racconto trascinante ad una confusa giaculatoria. Comunque complimenti.
Recensioni
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"Il compito di uno scrittore non è quello di proporre visioni del mondo o indirizzi ideologici. Lo scrittore deve dare corpo alle energie, alle contraddizioni, anche al negativo che muovono il mondo. E questo attraverso la materialità della scrittura": così concludeva Nanni Balestrini il suo dialogo con Claudio Brancaleoni sul numero 45 di "Allegoria" (settembre-dicembre 2003). Un dialogo incentrato molto più sull'attività del narratore che non su quella del poeta. E sebbene quella e questa condividano molte delle proprie divise formali (utilizzo della "parola d'altri" con pronunciata mimesi dell'oralità, enfasi sul montaggio, uso della lassa ritmata come unità compositiva, ecc.), proprio Sandokan evidenzia la vera distinzione fra le due: che non è tanto (o non solo) di carattere formale. Malgrado il poeta (delle epiche e "narrative" Ballate, certo, ma anche quello più "a parte" dell'ultima raccolta uscita l'anno scorso da Bibliopolis, Sfinimondo - un titolo sintomatico, ma anche una non sopita volontà di dire, per esempio, gli scempi della mondializzazione armata) usi spesso, come detto, il cut-up e il montaggio di materiali verbali preformati, con una loro connotazione ideologica dunque, la sua "vision e del mondo" è evidente. Espressa mediante un montaggio dei materiali tendenzioso e, soprattutto, allegorico: che rende inequivoca, insomma, l'intentio auctoris.
Diversa la temperatura dei romanzi di Balestrini. Nei quali la voce chiamata al proscenio è una, ma con la funzione "epica" di "una voce narrante collettiva che esprime e interpreta il gruppo sociale con il suo linguaggio particolare" (cito ora dall'intervista rilasciata a Gianni Bonina di "Stilos", il 13 aprile di quest'anno). Essendo essa portavoce dei desideri e delle "energie" di diversi individui, e dunque anche di insanabili "contraddizioni", è impossibile per l'autore far del tutto con essa coincidere la propria "visione del mondo". L'epochè così realizzata - che rende ogni enunciato affettivamente ambiguo, di spesso indecidibile partecipazione - è dunque, più che una volontà d'autore, un portato della tecnica da lui adottata. Questa sospensione del giudizio, questo trascendentale "discordo" - per fortuna lontano le mille miglia dalla didascalicità a slogan cui spesso si riduce la narrativa con intenzioni "politiche" - porta anche il lettore ad aderire, non ideologicamente ma appunto "energeticamente", a "emozioni collettive" che magari condivide solo in parte o niente affatto: "Anche il negativo che muov e il mondo". Proprio questo è il maggior insegnamento impartito da Balestrini alla più giovane generazione di scrittori: da Aldo Nove all'ultimo Giorgio Falco di Pausa caffè.
Esemplare il caso dei Furiosi (1994, riproposto quest'anno da Derive Approdi). Balestrini premette di non avere alcun interesse per il calcio ma sostiene che, nel riflusso degli anni ottanta, l'"entusiasmo" e la "vitalità" degli hooligans sono stati un sostitutivo del ribellismo degli anni precedenti (pur ammettendo che quelle energie "derivano da qualcosa che è certamente miserabile rispetto alla moralità delle grandi lotte politiche degli anni precedenti"). Proprio perché detesto con vigore il calcio e i suoi ammiratori, posso dire che I furiosi (nella riedizione coonestati da un discutibile scritto dell'altrove assai acuto Alessandro Dal Lago) è un libro molto riuscito. Non a dispetto della sua ambiguità, insomma: ma proprio in virtù di essa.
Laddove tale tasso di ambiguità scemi, e l'intentio con maggiore didascalicità traspaia dall'ordito, quest'effetto di epochè e di pura adesione "energetica" all'azione (in primo luogo linguistica) perde molto del suo smalto. Era per esempio il caso di Una mattina ci siam svegliati (1995), cronaca della manifestazione antiberlusconiana del 25 aprile '94 presa dalle dirette di Radio Popolare. Ma già in definitiva del prototipo Vogliamo tutto (1971). Ed è anche il caso di questo Sandokan. Il cortocircuito è evidenziato da un dato "esterno" (l'inserimento nella collana degli "Struzzi", destinata a saggi d'attualità, inchieste e reportage), come spesso in questi casi sintomo di qualcosa di più "interno". La recensione che di Sandokan ha scritto Angelo Guglielmi (su "ttL" lo scorso 5 giugno) esordiva proprio notando come, in libreria, il volume sia collocato tra i saggi anziché fra la narrativa. Segno, per Guglielmi, che "Balestrini, sospettato di oltranzismo formale, finisce per essere uno dei pochi forse l'unico scrittore italiano (vivente) con l'orecchio attento a ciò che accade nel nostro paese". Tenderei però a escludere che anche il più distratto dei librai collocherebbe I furiosi nel reparto di sociologia, o Gli invisibili in quello di storia contemporanea.
Il punto è un altro, e riguarda proprio l'insufficiente distanza "ideologica" fra autore e voce narrante. Questi è un anonimo ragazzo del casertano, testimone delle efferatissime (e purtroppo verissimamente accadute) imprese di "Sandokan" e altri camorristi del clan Bardellino: "uno sguardo vicino ma non partecipe", "un'ottica coinvolta nelle situazioni ma non complice delle azioni": "una storia così non poteva essere raccontata dall'esterno, ma nemmeno da un protagonista camorrista" (così Balestrini su "Stilos"). Già. Ma perché non un protagonista camorrista? Le voci narranti dei Furiosi erano ben interne alla logica simbolica e alla prossemica tattica, diciamo, della guerriglia sugli spalti. E in fondo l'epopea di Cosa Nostra, al cinema, non è riuscita a Coppola, a Scorsese, forse soprattutto al Ferrara di The Funeral, proprio perché questi autori - in forme diverse e con conseguenti diversi gradi di ambiguità, certo - si sono anche diegeticamente calati nel punto di vista mafioso?
Come dar torto al ragazzo narrante, che sogna di evadere dal teatro di guerra campano per andare all'università e diventare a tutti gli effetti un "bravo ragazzo"? Non solo egli è estraneo alla logica mostruosa del clan - sia pure con episodici cedimenti, non senza una vezzosa autocitazione: "Antonio Bardellino (...) vuole avere ancora di più vuole avere il potere vuole avere il massimo vuole tutto è così" -, ma si mostra anche in grado di definirla con gli strumenti della politicamente più "corretta" sociologia moderna: "L'errore grande di chi si occupa di questi fenomeni è che (...) non è soltanto questione di un gruppo di criminali di assassini di pazzi (...) è proprio una questione di mentalità di qui perché la questione è che tu vivi in un posto in cui non ti è assicurato un cazzo (...) non c'è un cinema un teatro una biblioteca un parco pubblico una scuola". Ragionamento perfettamente condivisibile, appunto (seppur non proprio innovativo), in un saggio una cronaca un reportage. Decisamente d'impaccio in un romanzo.
Non che in Sandokan manchino scene di trascinante "energia". In particolare l'incipit, in cui si racconta della rocambolesca cattura di "Sandokan", è un lungo e mobilissimo piano sequenza che può ben ricordare certi celebrati momenti di Good Fellas o Casinò; ed è memorabile il nono capitolo, Il macero, in cui si descrive au ralenti una normale mattinata di scempio degli eccessi di produzione agricola. Ma la conclusione - nella quale il narratore "parte per il Nord" dopo aver "buttato via i vestiti che ancora puzzavano di quella puzza orribile di sangue congelato", ed essersi "detto con rabbia che non tornerò mai più al mio paese" - non è solo il racconto di una sconfitta politica (quella che abbandona una terra al suo destino): è anche la sanzione di uno scacco letterario.
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