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recensione di Comba, E., L'Indice 1994, n. 2
Lo studio dei fenomeni culturali dell'umanità ricopre un ambito smisurato e straordinariamente differenziato, tanto che la pretesa da parte di una singola disciplina di abbracciarlo tutto, nella sua globalità e nelle sue molteplici prospettive particolari, può sembrare un atto di immodestia o di smoderata presunzione. Eppure l'antropologia, in particolare l'antropologia culturale, costituisce proprio il terreno in cui le problematiche più diverse vengono indagate applicando strumenti e accorgimenti metodologici ampiamente eterogenei allo studio dei popoli, delle culture, delle situazioni sociali più differenti e lontane le une dalle altre. L'antropologia costituisce un campo di studi che può offrire qualcosa a qualsiasi studente vi si avvicini, a partire dagli interessi più disparati: dalla biologia all'economia, dalla musica al diritto alla storia e così via. E tuttavia, nonostante questa vastità di orizzonti e molteplicità di approcci, o forse proprio per questo, il pensiero antropologico registra oggi una fase di ripensamento critico.
I saggi raccolti in questo volume riproducono gli interventi a un convegno tenutosi a Pavia, il 28 e 29 ottobre 1991, e organizzato dal dipartimento di filosofia dell'università, nel corso del quale numerosi studiosi italiani e alcuni ospiti stranieri si sono interrogati sul senso e le finalità del "pensare, comprendere e descrivere" le forme di alterità culturale. Nel suo contributo, Philip C. Salzman, antropologo alla McGill University di Montreal, riprende il tema della grande libertà e vastità di orientamenti consentite dall'antropologia: "gli antropologi hanno il mondo intero a loro disposizione", a differenza dei limiti molto più circoscritti che caratterizzano quasi tutte le altre discipline umanistiche. Ne consegue però, secondo Salzman, una certa debolezza dei resoconti etnografici, che possono rivelarsi a volte "tanto generici e superficiali quanto limitati e parziali".
Ma la riflessione critica degli antropologi si è addentrata ben più a fondo nei meccanismi di produzione del sapere di questa disciplina, mettendo in discussione lo strumento essenziale di raccolta e trasmissione dei dati: la descrizione etnografica. Come mostrano gli interventi di Mondher Kilani, di Fabio Dei e Pietro Clemente, fino alla metà del nostro secolo la descrizione e raccolta dei dati nella ricerca sul campo sembrava mettere in gioco soltanto lo scrupolo e la capacità di osservazione del ricercatore, secondo uno schema di pensiero fortemente influenzato dal clima positivistico. La crisi delle concezioni positivistiche, la svolta epistemologica che ha determinato l'abbandono del carattere di assolutezza attribuito alla conoscenza scientifica e il riconoscimento delle implicazioni filosofiche, ideologiche, culturali, psicologiche di ogni indagine scientifica, hanno avuto come conseguenza un ripensamento del ruolo della descrizione in etnografia. Come non esistono "fatti" oggettivi osservabili in natura al di fuori di una qualche teoria interpretativa, così nessuna osservazione e descrizione di fatti culturali può essere considerata "neutrale", svincolata dai condizionamenti derivanti dall'impiego di strumenti concettuali, di forme linguistiche che derivano dal più vasto contesto sociale e culturale in cui l'osservatore stesso si trova inserito. Nei tentativi di traduzione di concetti e significati indigeni appartenenti a un ambito culturale diverso dal nostro permane sempre una certa quota di etnocentrismo, più o meno mascherato, in quanto i termini e i concetti da noi impiegati non si sovrappongono mai in modo completo e adeguato a quelli che si tenta di descrivere, determinando un certo grado di deformazione e di arbitrarietà.
Si è osservato spesso come i viaggiatori e gli esploratori dei secoli passati portassero con sé un bagaglio di preconcetti e di nozioni dell'immaginario culturale che influenzavano in modo determinante le loro osservazioni sui paesi che visitavano e gli esseri umani che vi abitavano. Da qui la diffusa credenza in esseri mostruosi e fantastici che popolano le cronache di viaggio Alcuni autori di questo volume (Kilani, Meillassoux, Lombardi Satriani) propongono l'inquietante domanda se anche i moderni antropologi non corrano il rischio di produrre delle immagini deformate e artificiose, quindi "mostruose", dei popoli che tentano di descrivere. Anche Ugo Fabietti, nella sua analisi sulla dimensione del tempo nella teoria antropologica, osserva come spesso il distanziamento cronologico assuma il significato di un allontanamento dell'altro, del diverso, nei termini di una distanza evolutiva o storica. Gli altri popoli divengono in tal modo immagini dell'arcaico, del remoto, di un passato trascorso, anche in quegli autori che non adottano esplicitamente un'ottica di tipo evoluzionistico.
Da queste considerazioni consegue che non solo la descrizione etnografica è sempre problematica, parziale, continuamente rimessa in discussione, ma essa non può essere disgiunta da quell'aspetto della riflessione antropologica che invece era considerato il più astratto e rilevante dal punto di vista teorico: la comparazione. Le due procedure sono in effetti inestricabilmente connesse e il lavoro dell'antropologo consiste nel far interagire in vari modi le problematiche che emergono dalla ricerca etnografica con le nozioni e le griglie interpretative, sempre provvisorie e modificabili, che il sapere antropologico via via costruisce (contributi di Scarduelli e Simonicca).
Il tentativo di comprensione dell'altro diviene dialogo quando, interrogandosi sui fondamenti e sulla natura delle conoscenze antropologiche, si osserva come queste prendano forma in precise condizioni sociali di incontro tra saperi locali e sapere "globale" o "universale" (Kilani), caratterizzate spesso da ineguaglianza sociale oltre che distanza culturale. Inoltre, come mostra efficacemente Francesco Remotti, è necessario riconoscere che l'antropologia, il pensare e descrivere l'alterità, gli "altri", non è una prerogativa esclusiva della cultura occidentale moderna. Anche gli "altri", i popoli o le culture incontrate e descritte dagli antropologi, dispongono di forme di concettualizzazione e di definizione dell'uomo, degli altri uomini, delle loro e altrui culture. In questo senso, il sapere dell'antropologo dovrebbe assumere non tanto la caratteristica di un sapere di "noi" sugli "altri", quanto piuttosto di un campo in cui si intersecano e interagiscono, dialogando tra loro, la nostra antropologia e le antropologie degli "altri".
Il quasi unanime riferimento al pensiero del secondo Wittgenstein (in particolare al concetto di "somiglianze di famiglia") rivela il diffuso disagio epistemologico dell'antropologia contemporanea. E tuttavia, come afferma Maurice Bloch in questo volume al termine di un'appassionante analisi del concetto di paesaggio in una cultura del Madagascar, al di là dei problemi filosofici ed esistenziali, rimane la convinzione che sia gli antropologi sia i loro lettori siano più interessati a conoscere e tentare di comprendere il pensiero e i costumi degli "altri" piuttosto che gli arrovellamenti interiori dell'etnografo stesso o i suoi condizionamenti culturali.
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