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Anno edizione: 2011
Anno edizione: 2021
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Durante la sua vita, Aglaja Veteranyi è stata molte cose: attrice girovaga, acrobata, scrittrice di successo, donna dalla scura e delicata sensibilità. Nata in Romania nel 1962 da una coppia di circensi, Aglaja visse i suoi primi quindici anni seguendo i genitori in giro per il mondo. Quando nel 1977 la madre acrobata decise di fissar le tende a Zurigo, Aglaja parlava perfettamente il rumeno e lo spagnolo d'Argentina, ma non sapeva né leggere né scrivere. In pochi anni, dopo aver studiato recitazione a Zurigo, iniziò a scrivere testi teatrali e romanzi che ottennero presto importanti riconoscimenti di critica e di pubblico. Il suo primo libro, tradotto in italiano con il titolo Perché il bambino cuoce nella polenta (Tufani, 2005), vinse l'Adalbert von Chamisso Förderpreis e il Kunstpreis Berlin.
Nel 2002, poco prima che uscisse il suo secondo romanzo, che ora leggiamo grazie alla bella traduzione di Angela Lorenzini, Veteranyi decise di togliersi la vita abbandonandosi alle acque del lago di Zurigo. Secondo un personaggio del libro, i morti portano a Dio i loro ultimi respiri, nei quali egli legge tutta la loro vita. Per questo, la biblioteca di Dio è uno scaffale pieno di ultimi respiri. E a pensarci bene, anche il piccolo libro che l'editore Keller ha portato sugli scaffali delle nostre librerie custodisce i frammenti dell'esistenza sradicata e girovaga di Aglaja, segnata dall'amore per il teatro, dalla ferita dello spaesamento sofferto dalla propria famiglia e soprattutto dalla presenza costante della morte, vissuta come rito collettivo prima ancora che come questione individuale. L'intero racconto, che ha forti tinte autobiografiche, è racchiuso infatti dalla frase che riecheggia nell'incipit: "Passiamo più tempo da morti che da vivi, per questo da morti ci serve molta più fortuna". Nel breve romanzo, la giovane protagonista racconta la morte dell'amata zia, accudita dalla sorella, che la narratrice vede come una madre stupida e ingombrante, dal compagno dello zio Petru, pittore omosessuale morto dopo vent'anni passati nelle galere di Ceausescu, e da una miriade di parenti che vanno e vengono dalla Romania. Scandito in tre tempi, dall'agonia in ospedale al dolce dei morti preparato per il funerale, il romanzo raccoglie brevi episodi del passato e del presente, brani di colloqui, soffermandosi su elementi spuri come le scritte che si leggono sui muri delle corsie o sui formulari da compilare all'anagrafe, che si tingono così di una surreale e straniante comicità.
Il rapporto di Veteranyi con la morte è infatti prima di tutto una questione di linguaggio, un tentativo di trovare una resa verbale al suo impossibile apprendistato: prepararsi all'assurdo mestiere di vivere con la morte è per lei e forse non solo per lei imparare per l'ennesima volta una lingua estranea. "Mi crescono addosso lingue straniere" dice la protagonista dello Scaffale. Forse l'aspra e incomprensibile lingua della morte non è solo cresciuta addosso a Veteranyi, ma le si è insinuata sottopelle, sin troppo a fondo.
Stefano Moretti
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