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Anno edizione: 2017
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La storia viene narrata dal punto di vista di Albina, giovane studentessa alle prese con la tesi di laurea. Volendo trattare un argomento socialmente sensibile, la ragazza si interessa ad una vecchia storia, raccontata dalla nonna, che ha come protagonista un giovane ragazzo omosessuale vissuto nel suo stesso paesino anni prima. La nonna si trova all’ospedale per problemi di salute e, tra un orario di visita e l’altro, finisce per raccontarle tutta la storia di Gianni. A questo punto, per me, è sorto un problema: la noia. Ero molto curiosa di scoprire la storia di Gianni, ma quando dico che la nonna la racconta tutta, intendo dire proprio tutta, partendo dall’adolescenza dei genitori fino al loro incontro, il loro matrimonio e il generare i figli uno dopo l’altro. Era necessario? Secondo me no. Sono d’accordo sul fatto che approfondire di più i personaggi secondari, come i genitori, possa essere utile al fine di comunicare meglio il messaggio di ottusità mentale irreversibile, però allo stesso tempo sto leggendo un libro sulla storia di Gianni, voglio sapere di Gianni. Di come i suoi genitori si siano conosciuti non è che mi importi poi molto. La trama, però, è secondo me il punto forte del romanzo. Cinzia Nazzareno ha voluto sottolineare il gap generazionale di apertura mentale tra Albina, la protagonista, e Filippo, il padre di Gianni. E’ proprio a causa sua infatti se Gianni viene spedito a Roma per la vergogna di avere un figlio gay e per il timore del pensiero della gente. La Sicilia esce a testa bassa da questo romanzo e viene dipinta come una società non ancora pronta alla completa apertura mentale di altre città italiane. Nonostante questo, però, l’autrice ci tiene a scrivere che a Palermo è stato aperto un ospedale che fornisce anche sostegno psicologico ai transessuali durante la loro metamorfosi. Dunque la speranza non deve morire, la Sicilia non è pronta oggi, ma forse domani lo sarà.
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