In La scena perduta Yehoshua veste i panni di Yair Moses, un regista in là con gli anni, che, accompagnato da Ruth, la "sua" attrice preferita, partecipa a una retrospettiva dedicata ai suoi primi film a Santiago di Compostela. Si tratta di opere giovanili dominate da atmosfere surreali e visionarie, scritte dall'allora fedele ex alunno e poi sceneggiatore Shaul Trigano e filmate dal bravissimo operatore Toledano. Con il primo, il regista ha ormai interrotto ogni rapporto, e lo considera "un autore perduto"; il secondo è deceduto. Di Ruth conosciamo solo il nome, ma attorno a lei ruota una buona parte delle tensioni di questo libro. Al tempo di quelle prime opere, Ruth era la compagna dello sceneggiatore, e l'operatore Toledano ne era innamorato fin dall'infanzia; dopo la rottura tra regista e sceneggiatore, il regista aveva appoggiato l'attrice nel suo rifiuto di girare una scena. Sullo sfondo di queste relazioni triangolari si staglia la scena rifiutata da Ruth, la recitazione di una versione israeliana della Caritas Romana: la figlia Pero che allatta il padre prigioniero Cimone per salvargli la vita. La scena non fu mai filmata e venne quindi perduta, rimanendo tuttavia in sospeso, come una fantasia non realizzata o un atto mancato, per il quale è necessaria una qualche forma di espiazione. La retrospettiva di Santiago produce semi che germinano quando si passa dal cinema alla realtà. Comprato a Santiago un bordone da pellegrino "che gli piace sempre di più", Moses trasforma il suo rientro in Israele in un pellegrinaggio sui luoghi di quei suoi primi film quasi dimenticati. Là ritrova lo spirito anticipatore e profetico del suo sceneggiatore ma riavverte anche il dolore per la loro rottura. Una volta in Israele, Moses cerca l'ispirazione per un nuovo film, esamina proposte e suggestioni che non lo convincono del tutto; infine, nell'ottavo capitolo, cerca con caparbietà, e ottiene, un difficile incontro con Trigano che gli chiede, in cambio di una tardiva assoluzione, di espiare la colpa per aver perduto la sua scena. Non è soltanto una scena che è andata perduta in questo romanzo: con l'eccezione dell'ottavo capitolo, in cui ritroviamo un grande Yehoshua che, nei panni di Moses, dialoga con Trigano (in realtà con se stesso, come testimoniato dall'uso della seconda persona singolare), sembra perduto anche l'appassionante scrittore che abbiamo conosciuto in passato, quando dipingeva grandi affreschi storici o quando rivelava le contraddizioni della società israeliana e il suo difficile rapporto con quella palestinese. I temi di questo romanzo sono l'anima dell'artista, quale mezzo espressivo più le si addica, le fonti dell'arte e della creatività, "musa seria [che] odia vizi e viziati", quali traumi le alimentino, come nascano e che cosa siano i personaggi. Questioni non minori dei temi che erano stati sullo sfondo delle costruzioni dei grandi romanzi dell'autore, e che qui sono trattati solo en passant: "L'esistenza ebraica sempre minacciata da se stessa" o la rappresentazione del proprio paese divenuto "un campo militare anziché essere una patria viva e vitale". La ricerca dell'origine dell'arte e della creatività diventano qui un riassunto, o forse un ritorno, alla propria opera (principalmente giovanile). I film della retrospettiva di Santiago richiamano i primi racconti di Yehoshua (La morte del vecchio, Il poeta continua a tacere, Il rapido serale di Yatir, L'ultimo comandante) e frequenti sono riferimenti e atmosfere dei suoi romanzi successivi: la scomparsa di Ruth in Spagna ricorda quella di Nina in Cinque stagioni; il viaggio di Moses verso il confine con la striscia di Gaza "in una zona pericolosa, di notte, in inverno" per raggiungere Trigano rievoca le pagine di La sposa liberata in cui si attraversava di notte un labile confine verso Ramallah per assistere a un festival letterario; come nell'opera dell'autore, anche nella retrospettiva cinematografica si passa da un primo surrealismo a un crescente realismo. Yehoshua cerca l'origine della creatività anche per tornare ad attingervi fisicamente, come l'ultima scena (ritrovata) testimonia, ma fino ad allora si sente stanco e immobile, "un vecchio artista che aspetta un segno per infondere vita a una nuova opera". Il consiglio che l'autore dà a se stesso è quindi di rimettersi in viaggio. Altri temi confluiscono poi in questo romanzo e tuttavia non diventano davvero portanti: il rapporto tra psicoanalisi e arte, le figure femminili mai comprese fino in fondo, l'orientalismo con cui sono descritti beduini veri o fittizi, o i palestinesi che tirano razzi da Gaza (spinti da una "nostalgia che va e viene", un'idea poetica, ma non interamente di buon gusto), il recupero delle origini mizrahi di Yehoshua: quasi tutti i personaggi sono ebrei di origine araba, mizrahi, appunto, i luoghi sono quelli della periferia di Israele, abitati da mizrahim. Si tratta tuttavia di un ritorno del rimosso che non convince: mentre Trigano e Toledano lo sceneggiatore e l'operatore mizrahi − dettavano la prospettiva dei film, questi erano poi diretti dall'askenazita Moses. Su tutto incombe inesorabile il passaggio del tempo, un tema che attraversa tutto il testo con la consapevolezza che "proprio perché il futuro è breve, si fa intenso e interessante", per prepararsi al gran finale, "un compromesso tra ciò che era e ciò che non sarà più". Per l'edizione italiana, si segnalano l'eccellente traduzione di Alessandra Shomroni, e la scelta, assai discutibile, di Einaudi di non riprodurre in copertina la scena che dà il titolo e il soggetto al romanzo (come invece nell'originale ebraico), relegandola in bianco e nero all'interno del volume. Marcella Simoni
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