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Il problema di molti presunti autori di letteratura è quello di sentirsi già scrittori importanti o peggio di nicchia e dunque sottovalutati dalla grande critica. ''Lo sciacallo'' di Giuseppe Di Costanzo è un tipico esempio di ciò. Scritto benino, ma comunque niente di eccezionale, è una storia presuntuosa che non ti coinvolge mai e anzi alcuni vezzi alla fine risultano anche piuttosto fastidiosi. Per quanto sia convinto che i manoscritti sia meglio pubblicarli che lasciarli marcire in un cassetto, i libri come "Lo sciacallo" (e soprattutto chi decide di pubblicarli) sono i veri responsabili della crisi dell'editoria e in senso più ampio della cultura italiana, giustamente considerata da molti provinciale e autoreferenziale. Visto il poco tempo che i ritmi frenetici della vita moderna ci concedono per leggere, se potete comprate un altro libro.
Melodramma melanconico. Un giallo metafisico che si perde in storture mentali di aspiranti suicidi, inscenati da un sedicente avvocato/psichiatra. Trama ben articolata sull'introspezione del protagonista, ma che suscita nel lettore il perenne dramma del dubbio: "E'stato un delitto inventato o un vero suicidio?"
Al principio di tutto c'è sempre il dubbio, antico come l'uomo, a volte lontano e inafferrabile, a volte invece vicino e pesante come un macigno,dove finisce l'omicidio e dove invece comincia la giustizia, come atto soggettivo, dovuto e inevitabile, anche se poi egualmente imperdonabile, cosa è accaduto veramente in quella casa, per saperlo bisognerebbe scavare nei buchi neri della coscienza di Daniele, di Davide, di Dario, e di tutti i diavoli del purgatorio, o forse, ancora di più, bisognerebbe scavare nel grande buco nero della coscienza collettiva, molto più che sporcarsi le mani con il lato oscuro del nostro essere, lo sciacallo è veramente uno sciacallo, oppure invece è stato solamente lo spietato esecutore di un incubo, il primo suicidio è stato veramente un suicidio, oppure è stato un omicidio abilmente dissimulato, oppure è stato semplicemente l'atto di pietà di un uomo stanco verso il se stesso più debole, oppure ancora, e a me sembra che le cose siano andate così, la parte del proprio io che ha bisogno di restare nell'ombra ha preso il sopravvento, per un attimo che ovviamente è durato troppo a lungo, e poi Davide è veramente diverso da Daniele,o forse invece Daniele e Davide, come a me sembra, sono uguali proprio come due gocce d'acqua, o meglio come solo un padre e un figio possono esserlo e l'unica differenza tra loro sta solo nel modo di reagire, il che comunque non è poco, il primo fugge dentro i suoi personaggi inventati, il secondo invece resta, e continua a lottare contro i suoi fantasmi, con quella maledetta pistola nella tasca.
Recensioni
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scheda di Pent, S., L'Indice 1996, n. 5
Nessuno è mai abbastanza colpevole, neanche quando si confessa autore di un delitto. La vita incrimina un po' tutti, tanto che alla fine risulta difficile generare giudizi obiettivi, soprattutto diventano impossibili le autoassoluzioni. Vivere è già di per sé un'ammissione di colpa. Davide ripercorre gli ultimi momenti di vita del padre Daniele, avvocato di successo trovato impiccato nel suo appartamento. All'apparenza un suicidio, ancorché inspiegabile, fino a quando una serie di telefonate non allerta Davide sulla via di un'altra ipotesi: lo "sciacallo" che racconta la storia degli inganni perpetrati dal defunto nei suoi confronti sembra essere stato il suo assassino. L'incontro tra Davide e l'uomo è esemplare per asetticità narrativa, freddo come una pugnalata al rallentatore. Dal monologo dello sciacallo emergono le colpe di Daniele, ma Davide coltiva ormai una sua determinata decisione, stringendo in pugno la pistola con cui ha raggiunto l'appuntamento. Sollecita lo sciacallo verso il luogo del delitto e lo uccide al termine di una lunga sequenza di realtà e di sogno nella quale ripercorre gli appunti narrativi del padre per cercare un'ultima verità. Assassino-suicida, decideranno gli inquirenti, ma Davide non è più certo di aver agito giustamente. Le parole scritte dal padre - quasi un testamento esistenziale - gli hanno permesso di capire che, forse, ognuno di noi nella vita cerca una figura estranea su cui scaricare l'immondizia dell'anima, un comodo paravento di cui disfarsi al momento opportuno, uno "sciacallo" al quale attribuire il fardello della colpa. Salvo poi, come può accadere, risultarne vittime sacrificali. Cupa, ossessiva e claustrofobica, l'atmosfera di questo terzo romanzo di Giuseppe Di Costanzo (nato a Napoli nel 1953 e filosofo di professione) non lascia spazio ai respiri liberi. Un cerchio che si chiude, dapprima attorno ai sospetti, poi attorno al colpevole, poi giù a soffocare lo stesso protagonista, Davide, che dalla vicenda esce marchiato a fuoco, vittima e carnefice, lucidamente proiettato in un gelido vuoto di sentimenti e di sensazioni.
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