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paperback 208 9788870181906 Molto buono (Very Good).

Dettagli

1993
208 p.
9788870181906

Voce della critica

Del suo Canzoniere, Umberto Saba ha scritto che "è il libro di poesia più facile e più difficile del Novecento". Attenuando un po' sia la modestia sia il compiacimento, si potrebbe dire di Scorciatoie e raccontini che è uno dei libri di prosa più facili e difficili del Novecento. Ambiguo nella sua trasparenza conquistata a caro prezzo; inclassificabile nel suo tendere di volta in volta all'aforisma, al frammento narrativo, al saggio, al referto diagnostico. Un autentico campione di "bibliodiversità", che Einaudi ha il merito di riproporre, riprendendo l'edizione inclusa nel "Meridiano" di Tutte le prose, in una collana destinata a un pubblico colto ma non specializzato. Al quale magari si poteva concedere un po' di credito in più, recuperando dal "Meridiano" non solo il testo ma almeno una parte degli apparati, se non altro per dar conto del lungo e complesso iter genetico di Scorciatoie e della presenza, in appendice, di un gruppo di Primissime Scorciatoie e di uno di Scorciatoie disperse, il primo dei quali reca la data 1934-1935 e precede quindi di un decennio le sei puntate di quelle "ufficiali", apparse sulla "Nuova Europa" tra marzo e luglio 1945 e riunite in volume per Mondadori nel gennaio 1946.
Sono due estremi cronologici eloquenti, ma che necessitano di un chiarimento. Il primo segue di poco l'incontro con la psicoanalisi sui piani complementari della teoria (la lettura di Freud) e della pratica (la cura intrapresa tra il 1929 e il 1931 con Edoardo Weiss), e testimonia la discendenza diretta del genere "scorciatoia" da quella scoperta decisiva. Il secondo rimanda all'anno di felicità trascorso da Saba a Roma, immerso nella "calda vita" della città e nel clima euforico della Liberazione.
Tutto (o quasi tutto) quello che resta da sapere sulla natura e i moventi delle scorciatoie, Saba l'ha affidato alle prime due. Una postura stilistica: "Sono piene di parentesi, di 'fra lineette', di 'fra virgolette' (…) di 'tre puntini', di segni esclamativi e di domanda. Che il proto prima, e il lettore poi, mi perdonino. Non so più dire senza abbreviare; e non potevo abbreviare altrimenti". E una dichiarazione di metodo: "Sono – dice il Dizionario – vie più brevi per andare da un luogo a un altro. Sono, a volte, difficili; veri sentieri per capre. Possono dare la nostalgia delle strade lunghe, piane, diritte, provinciali". Uno stile e un metodo inscindibili, perché se il secondo condiziona il primo, il primo non è che il sintomo visibile dell'altro. Il termine aforisma risulta quindi improprio per questa inedita forma breve che non punta il bersaglio con la freccetta dell'intelligenza astratta, ma mima l'oscuro lavorio di un pensiero inseparabile dall'esperienza nel suo addentrarsi cauto, per scatti, rallentamenti, accelerazioni e scarti, dentro le profondità dell'inconscio.
Non a caso Saba, nella scorciatoia che chiude il volume del '46, ne rintraccia la genealogia nel binomio Nietzsche-Freud. Dove il Nietzsche lapidario e asistematico di Aurora, l'essere sotterraneo che "perfora, scava, scalza di sottoterra" per conquistare "il suo mattino, la sua liberazione",rappresenta un modello non solo stilistico, ma anche e soprattutto ermeneutico (come ha rilevato Lavagetto nell'introduzione al "Meridiano" delle prose). Indica a Saba – che non amava i filosofi perché "come li avvicino diventano fluidi; si dilatano all'universale per non essere toccati in un solo punto nevralgico. Tutti i loro sistemi sono 'toppe', per nascondere una 'rottura di realtà'" – i soli luoghi in cui vale la pena inoltrarsi per diventare ciò che si è. Quanto a Freud, la sua implacabile dirittura di scienziato e la "dura igiene" della sua ricerca della verità forniscono la mappa necessaria tanto a esplorarli quanto a tornarne, se non illesi, almeno non troppo ammaccati; e nei casi migliori, al tempo stesso ancorati alla terra e misteriosamente sollevati: "Chi non è capace di veder chiaro in se stesso – dico chiaro fino al più profondo delle sue viscere – per poi magari, risalito in superficie, ridere di quello che ha veduto, e 'passar oltre': egli (…) non può né camminare, né saltare, né correre. Egli solo svolazza".
È questa, al di là degli incanti popolari di Roma, l'origine della felicità che circola in Scorciatoie: la felicità di un adulto riconciliato con il bambino che è stato e che non ha mai smesso di essere, che non può smettere di essere se vuole continuare a essere un poeta. Un adulto-bambino che adesso può guardare non solo alla propria storia ma alla storia tout court come a un immenso campo di battaglia dove altrettanti bambini ("che età ha oggi l'uomo? A me sembra, a giudicare dalle sue credenze, reazioni, stati d'animo […] che la sua età sia fra i cinque e i sei anni") si accarezzano o si prendono a pugni, spesso dissimulando nei pugni il desiderio di carezze e viceversa ("i ragazzi si dànno i pugni per non accarezzarsi. E, qualche volta, si accarezzano per non darsi i pugni"), sospinti a loro insaputa da due forze in antica tenzone: Eros, "il piccolo Eros" che si aggira tra gli umani con "un dito in bocca" pensando a come "fare un'unità di tutti questi pazzi", e l'istinto di morte, la silenziosa "eminenza grigia dei romanzi popolari (…) che, in fine, prende tutto".
Con questa convinzione, Saba può toccare i punti nevralgici della realtà, le sue faglie rivelatrici, in qualunque contesto si presentino: nella politica, nella storia, nella tradizione letteraria, nelle parole e nei gesti degli amici, in un'osteria romana e in una tradotta militare. Eppure Scorciatoie e raccontini, a dispetto della sua dichiarata asistematicità, è anche un libro-sistema nel quale si possono individuare serie tematiche coerenti, quasi delle macro-scorciatoie, che, come rocce affioranti dall'acqua, permettono di guadare il fiume di alcune ossessioni sabiane.
Due su tutte: una politica e una poetica. La prima configura una psicopatologia del dittatore – o più generalmente dell'individuo di potere, o ancora più generalmente del potere – attraverso fulminei colpi di bisturi nelle due figure cruciali dell'epoca: Hitler, il cui sogno profondo, e alla fine realizzato, è stato per Saba "ridurre la Germania un mucchio di macerie; e, fra nuvole di gas asfissianti, rimproverando ai tedeschi di averlo – per colpa degli ebrei – tradito, salire egli al cielo, in una specie di apoteosi, circondato dal fiore delle sue più giovani e fedeli SS"; e Mussolini, "due terzi boia e un terzo pover'omo", il padre "carcerario" che ha assecondato la congenita disposizione degli italiani al fratricidio ("Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli").
Nella seconda risuona la voce idiosincratica, maliziosa e irresistibile di un enfant terrible che liquida in due righe l'ermetismo ("Parole incrociate. Più – in Montale – la poesia di Montale"), scoperchia l'Edipo nascosto nel Canzoniere di Petrarca e in un sonetto di Foscolo, rivela il proprio orecchio assoluto perfino quando sembra fermarsi alla boutade ("penna L'amabile castità di questo poeta viene dal fatto che egli ci ha dato – senza che né lui né noi lo volessimo – i tanto attesi canti della maternità"). Del resto, per Saba, la vita di ognuno e la storia di tutti sono in gran parte una faccenda di madri e di figli: amorosa, dolorosa, spesso irreparabile, alla quale la poesia non offre la strada della guarigione, ma quella, più impervia e civile (una scorciatoia anch'essa, la più perfetta forse) della sublimazione.
Beatrice Manetti  

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Conosci l'autore

Umberto Saba

1883, Trieste

Umberto Saba è stato un poeta italiano. La madre, ebrea, fu abbandonata dal marito prima della nascita del figlio: S. conobbe il padre solo da adulto ma ne rifiutò il cognome, Poli, assumendone uno che suonasse omaggio alla razza materna («saba» significa «pane» in ebraico). Senza aver terminato gli studi, lavorò come praticante in una casa di commercio triestina e anche come mozzo su un mercantile. Fu militare durante la grande guerra, ma non andò mai al fronte. L’esordio poetico di S. era avvenuto già nel 1903 con l’edizione privata de Il mio primo libro di poesia, ma la sua prima vera uscita pubblica è del 1911, con Poesie, introdotte da S. Benco. Seguiranno nel ’12 le liriche di Coi miei occhi e il saggio...

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