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Anno edizione: 1997
Anno edizione: 2023
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recensione di Carbone, R., L'Indice 1989, n. 5
Lo stile di Garboli non ammette letture in un'unica direzione, che abbiamo ben chiari partenze e arrivi, orari e tabelle di marcia. È uno stile che cresce e si sviluppa su se stesso, e così facendo crea una fitta serie di strati di interpretazione al cui livello si dispongono tanti indicatori di profondità, parole-chiave, segni particolari dei quali il lettore non può fare a meno. La sua scrittura è prodiga di messaggi che trovano la loro spiegazione e il contesto più attivo in altri messaggi, a volte insospettabili di legami con i primi. È un lavoro di scavo, condotto con "cecità" ansiosa e allo stesso tempo certa dei suoi risultati, certa di giungere in superficie, anche se per un attimo, per rituffarsi nelle più attraenti gallerie dove ci si fa strada a forza di intuizioni e deviazioni e dove, insomma, si possono fare incontri interessanti (gallerie piene di personaggi).
Se così stanno le cose, gli scritti adesso riuniti in questo volume einaudiano ("sei prefazioni ad altrettanti libri usciti in Italia negli ultimi dieci anni"), denominati esplicitamente (troppo esplicitamente per non mettere in guardia) "servili", andrebbero visti e letti a partire dalla loro connotazione non sistematica, come testi occasionali e occasionalmente raccolti, si direbbe con un certo dispetto o quasi fastidio da chi, a suo tempo, li ha approntati. Questa prospettiva ha il suo margine di verità, che avrei voglia di definire, di primo acchito, "rispetto della volontà dell'autore". Ma c'è un altro ordine di considerazioni che va tenuto in conto, e cioè che la non sistematicità pertiene non solo - o non tanto - agli argomenti, agli oggetti reperiti e trattati, quanto al modo con il quale essi vengono messi in opera. Un metodo di lettura non sistematico è qualcosa di profondamente diverso da un metodo casuale e occasionale. Al contrario, esso testimonia la sua appartenenza ad una cultura che ha fatto proprio del rifiuto dei sistemi (disciplinari, professionali, eccetera) la sua necessità e il suo rigore. Una cultura che ha i suoi debiti (vuole avere i suoi debiti) con la tradizione del Novecento, e con essa si scontra, interrogandosi sui propri compiti, cercando di capire cosa oggi, in questo scampolo di ventesimo secolo, rimane ancora da fare.
Non credo sia un caso che gli "Scritti servili" si aprano con un testo su Molière, o più precisamente con un intervento su un certo modo di leggere l'autore del "Tartuffe" (la prefazione all'edizione italiana della celebre "Vie de Molière" di Ramon Fernandez). Si tratta in realtà di una puntuale riflessione su un metodo di interpretazione "novecentesco" di un autore del passato. Sarebbe altrimenti difficile spiegarsi perché il più acuto diagnostico e traduttore di Molière nella nostra lingua abbia preferito far comparire, in una raccolta di suoi saggi, un testo così eccentrico rispetto ad altri, di certo più illuminanti per comprendere il lavoro di Garboli traduttore (egli stesso, nelle "Note" - che non sono mai innocenti - non fa che rimandare a contributi esclusi da questa silloge). E che, scrivendo dell'opera di Fernandez, Garboli definisce per interposta persona, per contrasto, anche evidente, di posizioni, un suo stile di scrittura e di lettura: uno stile che "presuppone una cultura, come fu appunto quella del Novecento (si può dire 'fu'.?) non sistematica ma esistenziale; è lo stile, per intendersi, che abbraccia Nietzsche e Wilde, e raggiunge Adorno e Kraus; stile per definizione 'novecentesco' che si fa visibile, in Fernandez, e si affaccia con prepotenza sotto la scorza apparente di un pensiero che sembra organizzarsi costruttivamente su se stesso".
Come, al polo opposto, non è un caso che il volume si chiuda con un saggio su Roberto Longhi, dove l'omaggio a un maestro della cultura italiana del nostro secolo, condotto con una impeccabile escursione nei campi della metodologia della storia dell'arte cela, non v'è dubbio, un interrogativo che è tutto dentro l'orizzonte letterario di Garboli: qual è il valore, cioè, di una scrittura posta al servizio di qualcosa d'altro da sé - quale il valore epocale, direi, di questa operazione, quale la sua urgenza.
Ritorno così al significato del titolo, "Scritti servili". D'accordo, esso testimonia della destinazione dei testi raccolti, e da questo punto di vista c'è poco da dire. Ma è un titolo dotato di forte ambivalenza, giacché il servizio al quale allude diviene una metafora ricca di risonanze. In molte di queste pagine, c'è un costante riferimento alla "servitù" come atteggiamento culturale proprio della modernità (di una certa modernità). Tale legame, sotterraneo e viscerale, mette in opera un'altra metafora cara a Garboli, che è quella della malattia. C'è dunque denunciato un atteggiamento "malato" nei confronti della letteratura, o di tutto ciò che si muove a partire da una istanza di creazione letteraria - sempre che essa abbia, è chiaro, i caratteri di vera necessità.
Uno dei valori più attivi della parola "malattia" all'interno dell"'antimetodo" garboliano lo si trova, espresso in bella evidenza, nel saggio introduttivo alle "Opere" di Natalia Ginzburg, quando si legge: "La confusione tra una persona e i suoi libri - confusione che vorrei definire 'malata' - si presume che abbia un inizio, un principio, nel momento in cui si verifica un incontro e nasce un'amicizia. "Incipit vita nova", comincia allora un'ambigua trasfigurazione, uno scambio incessante tra i fatti esistenziali e la loro consacrazione, la loro riorganizzazione e ricognizione a livello letterario; la vita diventa il filtro, il paragone di se stessa".
Malattia, allora, come confusione tra "una persona e i suoi libri". Ora, il valore, il significato più attivo di questa confusione affonda le sue radici in quell'orizzonte culturale dal quale Garboli decide di prendere le mosse, quella cultura del Novecento animata da una insaziabile curiosità esistenziale; dove, cioè, l'argomento preso a discussione serve, a chi lo osserva, per definire il suo atteggiamento (il suo metodo, il suo stile). In questo senso, le pagine che Garboli dedica agli "scrittori-scrittori" (secondo la sua distinzione, posta ad apertura di libro, tra questi e gli "scrittori-lettori", ai quali egli dichiara di appartenere) del nostro Novecento - Delfini, Penna, Morante, la già nominata Ginzburg - diventano lo specchio attraverso il quale la sua volontà di scrittura sembra riconoscersi e procedere con un fascino e un'attrazione senza sosta. La seduzione di questi scritti scatta nel momento in cui il lettore capisce (non può fare a meno di capire) che in gioco non è soltanto il servizio reso ad altri scrittori, ma anche - a volte prioritariamente - l'esposizione della propria scrittura e del bisogno che essa ha di manifestarsi; in qualche modo l'esibizione delle proprie viscere.
Ma c'è un'altra parola che intrattiene stretti legami con ciò che viene definito malattia. Si tratta del gioco, inteso come possibilità, ingenua e immediata (come l'ingenuità scorata e disarmante di cui parla Garboli a proposito di Delfini, nel testo che è forse il più alto in assoluto di questi "Scritti servili") di affrancarsi da quello stato di servitù, di malessere del vivere proprio della condizione culturale nell'epoca della modernità.
La ricognizione di Garboli sul nostro Novecento letterario potrebbe, da quest'ottica, essere vista come la ricerca di quella condizione di "ingenuità" che è allo stesso tempo di "torpore e spossatezza" dell'esistere, ricerca del 'puer', della dantesca "anima semplicetta che sa nulla", così come ci viene fornita da uno degli autori sui quali di più lo studioso ha profuso, a piene mani, i suoi "messaggi cifrati" e il suo stile (Pascoli, che seppure escluso dalla silloge einaudiana fa capolino da molti angoli).
C'è un riscontro iconografico con il quale l'autore degli "Scritti servili" ha amato rappresentare la sua servitù, il suo compito. È il San Cristoforo del Polittico di S. Vincenzo Ferrer del Bellini, riprodotto nel volume subito dopo le pagine indirizzate "Al lettore", il "cananeo di grande statura" raffigurato nell'atto di trasportare, da una riva all'altra del fiume ostile, un bambino, il cui peso eccezionale nasconde l'apparizione del Cristo. Ma è un'immagine che ne fa venire in mente delle altre. Se il Novecento disegnato da Garboli ha i tratti, vibranti e sofferti, di una "discesa al padre", un'altra potrebbe essere l'icona: quella di Enea che trasporta sulle spalle il padre Anchise, nella "notte mitica" dell'incendio di Troia: "Ergo age, care pater, cervici imponere nostrae...".
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