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recensione di Lorenzini, N., L'Indice 1985, n. 5
Non capita sovente di seguire l'illustrazione di materiale d'archivio, lettere, schede, note, con l'interesse che si presta a una scrittura narrativa, allo svilupparsi di una trama che concilia lettura critica, indagine storica, riferimento biografico. Il libro in questione, mi piace subito precisarlo, ha questi pregi: e ad essi si aggiunge, imposto quasi, e provocato, dall'argomento, un tono elegantemente ironico, un saper guardare all'oggetto con la distaccata compostezza di chi sa all'occorrenza, per dirla con Almansi, costruire modelli ironici dell'ironia.
Ma allo studioso Guglielminetti si presta poi subito fede, tale è la sua dettagliata, rigorosa competenza, la sua capacità di servirsi del riscontro filologico per esaminare da vicino i caratteri di un esperimento letterario, quello crepuscolare appunto che cerca di fare i conti (aspetto, fino ad ora, poco indagato) con la ricezione del pubblico, con le attese di un mercato librario che riduce il libro a merce di consumo, con il costume, non solo strettamente culturale, di un'epoca. E tenta nondimeno, con altrettanta puntigliosità, di costruire una poetica di scuola, non importa se con scarsa coerenza e in assenza di programmi e referenti culturali precisi. Ecco, allora, un Gozzano nella veste inconsueta, ma non imprevedibile, del manager di se stesso, che usa la letteratura con calcolato cinismo, attento a blandire recensori e lettori, oltre che a imporre la propria linea a un suo piuttosto variegato entourage. Un Gozzano a doppia faccia, tematicamente inquieto (ironico, antipascoliano e soprattutto antidannunziano, moderno), formalmente tradizionalista fedele a Dante, al Petrarca, alla forma, appunto (si direbbe ora, in senso vasto, al Grande Stile). Accanto a lui, la piccola e composita schiera dei possibili, auspicati adepti: Amalia Guglielminetti, intanto, o un Vallini inquisito con grande attenzione in certe modulazioni dannunziane che non gli impediscono di avvertire la letteratura come cosa separata dalla vita (e quindi anche come esercizio snobistico); o ancora un Moretti sospettoso e prudente, capace di instaurare, con Gozzano, un curioso e alquanto crudele divertissement metaletterario, sovrapponendo Gozzano a Gozzano, o prestandosi a un'altalenante pratica di debiti e crediti reciproci. Ed anche, più defilati, Chiaves, Ragazzoni, Oxilia.
Si viene componendo gradualmente, nelle pagine acute di Guglielminetti, una fenomenologia dell'ironia, seguita sia al livello tecnico che a quello, per così dire, esistenziale. E non stupisce che sia quest'ultimo a prevalere nella finzione d'amore, luogo per eccellenza assegnato al travestimento: lungo tale linea si costituisce il vero leitmotiv di un'identità in crisi, capace solo di sottrarsi programmaticamente a se stessa ("Celeremo i tristi / volti sotto la maschera, e, non visti, / potrem sognate di non esser noi''). Nella vita, come nell'arte, si può tutt'al più fingere l'alterità e parodiarli, i sentimenti, sino alla parodia della parodia. Alla pari di altri motivi anche quello del confronto amoroso, del resto, è affrontato nell'agile trattazione del critico non solo come pretesto letterario o risorsa creativa, ma anche e soprattutto come fenomeno di costume e di psicologia sociale, con incursioni dirette nel repertorio ancora in gran parte inesplorato delle riviste dell'epoca (''la donna", in primo luogo).
Si conferma così I'intenzione di non interferire con giudizi preformati, di lasciare, con discrezione, la parola ai documenti e ai protagonisti, perché prenda corpo dal vivo e si definisca nella sua autentica fisionomia il clima di quella singolare, anomala scuola che, senza divenire nei fatti avanguardia e senza vincere (com'era negli auspici di un Corazzini interlocutore epistolare di Moretti), afferma, ad apertura di secolo, una propria radicale trasformazione del gusto e delle proprietà specifiche della scrittura poetica.
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