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In un tempo e in un luogo dove diventa sempre più necessario ribadire quotidianamente ciò che diversamente suonerebbe ovvio, se non persino banale, il libro di Emiliano Sbaraglia va considerato sotto questa luce già a partire dal titolo: un'equivalenza della scuola con un "noi" che non solo è un riferimento alle persone, un richiamo alla loro umanità, ma esprime anche un soggetto collettivo, eterogeneo al suo interno innanzitutto per ruoli e funzioni, e poi per caratteri, pregi, difetti, attitudini, accenti, colori della pelle, e che tuttavia solo nel suo pensarsi unito, come una sintesi di tutte le sue componenti, è in grado di esprimere le proprie potenzialità e, non ultimo, assolvere a un ruolo educativo inteso a raggio ampio, se non altro quanto più ampio possibile.
L'autore, dopo una decina di anni di supplenze, in veste di "insegnante precario di terza fascia" attende ogni anno "verso la fine di settembre, quando l'anno scolastico è iniziato da un paio di settimane", i telegrammi dalle scuole: "È questo il periodo in cui bisogna mantenere il sangue freddo, calma e gesso, non accettare d'istinto la prima convocazione, pensarci bene, perché il giorno dopo ne potrebbe arrivare una migliore, più lunga, più vicina a casa, con un orario settimanale distribuito meglio che magari ti permette di incastrare qualche altra offerta di lavoro. (…) Pensare bene e in fretta. Andare a controllare tutte e venti le scuole in cui sei in graduatoria, calcolare le effettive ore lavorative del contratto a termine, e quante possibilità ci sono di un suo prolungamento", scopo per il quale è utile cercare di sapere quale sia il motivo dell'assenza del titolare della cattedra. Se non fosse tutto vero, sarebbe molto divertente. Se non fosse la realtà che devono affrontare – per anni – persone il cui compito sarebbe quello di formare le nuove generazioni di un paese.
Malgrado, però, il fatto che la voce narrante sia senza nascondimenti quella (ovviamente autobiografica) del "professore", a emergere con forza dal racconto è soprattutto il punto di vista dei ragazzi, e la loro voce. La maggior parte delle cose che si leggono nel libro hanno così, per un verso, l'autenticità data dalla fonte legittima, senza tuttavia, per altro verso, scadere mai nel genere "aneddotica scolastica". È palpabile come il peso della precarietà non incida in negativo sulla passione per questo lavoro, sulla voglia di confronto con gli allievi, in un rapporto che viene vissuto nella continua ricerca di un equilibrio tra l'essere il professore "che predica in piedi sul banco", tipo "banda dell'Attimo fuggente" e l'applicare quel rigore necessario a ottenere il risultato finale: risultato che però, oltre alla pagella, "è anche riuscire a fare la propria parte nella crescita di un ragazzo in un periodo delicato e fondamentale della sua vita". Un'esplicita assunzione di responsabilità, quindi.
Nelle classi di liceo del professor Sbaraglia si parla dunque di molti argomenti anche se non "scolastici" nel senso del programma, dal razzismo diffuso nei gesti del quotidiano alle classi separate per stranieri, dall'attualizzazione della retorica messa in atto da Obama alla violenza negli stadi all'opportunità per gli studenti di scioperare, dalle questioni bioetiche alle adozioni, e si usano Dante e Calvino anche per filtrare il presente. La lettura, scorrevolissima e piacevole, genera umori alterni. A libro finito, non si può comunque non sottoscrivere un'idea chiave dell'autore: nel collasso generale, sociale, economico, culturale, la scuola ne rappresenta la dimostrazione più evidente, ma, al tempo stesso, rimane l'unico campo d'azione per tentare di cambiare le dinamiche in atto.
Giuliana Olivero
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