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Oradour-sur-Glane. In questo piccolo villaggio francese nel giugno del '44 si consumò un eccidio a opera di soldati nazisti. Il villaggio, per una scelta precisa, non è stato ricostruito ed è diventato un museo a cielo aperto di rovine. Oggi quelle macerie si trovano in simbiosi con la vegetazione che lentamente è loro cresciuta attorno. Un'immaginaria ghirlanda di moderne, leopardiane ginestre prova a riportare la vita nel luogo simbolo della più devastante delle distruzioni. E conferma la profonda verità di quell'idea di Simmel per cui nella rovina si manifesta il conflitto insanabile tra natura e spirito, o meglio prende corpo la vendetta della natura contro lo spirito che l'ha costretta tra le spire del proprio dar forma.
Ma qual è il significato della rovina oggi? Per Maria Ercolino ormai "le rovine hanno incluso la società intera al punto che esse non documentano più il passato quanto, piuttosto, il presente, come mute testimoni di un evento, di un momento, di una responsabilità".
È un passo di quello che forse è il saggio centrale di questa raccolta a cura di Giuseppe Tortora. Un libro che mette insieme i contributi scientifici presentati da diversi studiosi in occasione del convegno "Rovine e macerie" tenutosi a Pompei nel novembre del 2005. La domanda ancora una volta è: come fare un buon uso delle rovine? Ercolino, nel suo Il trauma delle rovine, passa in rassegna diversi modi di elaborare il lutto architettonico in diversi contesti storico-geografici. Si può infatti restaurare e ricostruire daccapo, cancellando le tracce della distruzione, oppure si può mantenere lo stato rovinoso dei resti come monito perenne e come pungolo per una rinascita. Dalle scelte fatte nella Dresda bombardata del secondo dopoguerra alle proposte di Daniel Libeskind per il monumento di rovine a Ground Zero, quest'ultima opzione sembra quella capace di non rimuovere un passato che, proprio in quanto introiettato a fondo, diventi molla verso la costruzione di un futuro meno vulnerabile.
Due sono i dioscuri i cui nomi ricorrono di più in questi saggi: Freud e Benjamin. Per il primo segnaliamo almeno il lavoro di Antonio Vitolo, Caducità, entropia, ginestre, in cui il discorso sulle rovine è legato a quello freudiano su lutto e malinconia. La rovina come segno duplice di caducità e riscatto. "Se c'è un fiore che fiorisce una sola notte, non perciò esso ci sembra meno prezioso" (Freud). Ma Benjamin risponderebbe che "una volta è nessuna volta". Le rovine non sono facilmente esorcizzabili. Come si sa, l'angelo della storia si lascia alle spalle un cumulo di macerie e non può in alcun modo fermarsi per "destare i morti e ricomporre l'infranto". Le rovine semmai vanno approfondite, bisogna farsene carico sapendo di non poterle redimere.
La nostra è l'epoca storica in cui distruzione e morte sono diventate alcune fra le merci più vendute sul mercato, come ci spiega Alessandro Dal Lago nel suo bel saggio Strategia degli scarti umani. Punto su cui anche il lavoro di Mario Costa finisce per convergere, anche se a partire da un'altra prospettiva: l'affermarsi prepotente di un "tecnomondo", che nella sua lotta con quello già dato della natura produce resti umani riottosi al cambiamento. Costa rinviene nel verum-factum vichiano, una prima manifestazione filosofica di questo rivolgimento, imposto dalla invasività della tecnica. Non manca una riflessione acuta sui riflessi che il dominio della tecnica proietta nella sfera del diritto, giunto ormai a esautorare l'azione del politico (Le antinomie del diritto di Giuseppe Cantarano).
Alla regola non scritta della distruzione cui è sottoposta la nostra realtà si può opporre la valorizzazione della soggettività vivente. In questo quadro vanno collocati gli sforzi teoretici di Aldo Masullo, che recupera un'idea di tempo come luogo della passione incomunicabile di un io storico che sperimenti su di sé "l'apriori della percezione", e quello molto intenso di Domenico Jervolino in cui, rielaborando concetti di Ricoeur, si sottolinea il nesso tra storiografia e memoria vissuta, nel tentativo di pensare la storia come un "collettivo singolare" in cui intrecciare ricordo e oblio.
Ma Benjamin ci ricorda che: "Il carattere distruttivo è sempre al lavoro. È la natura a dettargli i ritmi, indirettamente almeno: perché deve prevenirla. Altrimenti si incaricherà essa stessa della distruzione". Nel saggio di Giuseppe Pucci Il buon uso delle rovine si racconta come nel 1796 il pittore Robert, tanto amato da Diderot, abbia presentato dei disegni per il progetto di una Grande Galerie al Louvre in forma ancipite, e cioè raffigurandone anche la futura distruzione. Quindi idealmente anticipandola. Qualcosa di simile fece Speer, architetto del Terzo Reich, nella progettazione di deliranti edifici nazisti.
Ma qualcuno aveva già compreso e spiegato: "Il carattere distruttivo non vede alcunché di duraturo. E proprio per questo scorge ovunque vie d'uscita (
) Tuttavia, proprio perché scorge ovunque una via d'uscita, deve anche sgomberarsi ovunque la strada (
) riduce l'esistente in macerie non per amore delle macerie ma della via d'uscita che le attraversa" (ancora il critico berlinese). Come si potrà non fare un uso delle rovine migliore?
Gabriele Fichera
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