"Ogni volta che le crisi della società europea hanno fatto emergere poteri fondati sulla paura, la regressione dei valori illuministici e rivoluzionari dei diritti individuali ha spinto ad attingere all'antico deposito" del pregiudizio, conferendo "connotati razziali alle differenze sociali" e fondando sul sangue la giustificazione delle sopraffazioni". Questa diagnosi, così lucida e così attuale nell'Europa delle grandi migrazioni contemporanee, è il punto d'arrivo di un fulmineo pamphlet che Adriano Prosperi dedica all'intolleranza e in particolare all'antisemitismo. La forza polemica e insieme pedagogica di questa scelta una pedagogia sociale di cui si sente sempre più la mancanza nell'Italia di oggi - non esclude tuttavia un discorso rigorosamente scientifico, svolto "sul terreno familiare allo storico, che è appunto quello della ricerca delle cause e non quello dell'astratta indagine sulle origini". È lo storico a sottolineare con forza, fin dall'esordio, la diversa natura del tradizionale "antigiudaismo cristiano a fondamento religioso" e dell'"antisemitismo razziale" otto-novecentesco. Ma è lo stesso storico a suggerirne la continuità, indicando "la presenza di un filone specificamente cristiano nella genealogia dell'antisemitismo razziale". Questa doppia constatazione forma un interrogativo di partenza che riceve adeguata risposta dall'esame ravvicinato di "un momento preciso della storia europea", emblematico inizio dell'età moderna e delle ombre negative destinate ad accompagnarne il trionfale sviluppo: intolleranza religiosa, oppressione coloniale, razzismo. Nel 1492 la scoperta dell'America apre alla Spagna di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia smisurate prospettive di espansione; contemporaneamente la conquista di Granada e la sconfitta dei musulmani realizza l'unificazione del Regno; l'editto di espulsione degli ebrei, emanato nello stesso anno, perfeziona un processo che è insieme militare, politico e culturale: la Spagna deve essere "prima di tutto cristiana per poter essere unita" e il battesimo diventa "l'unico sigillo dell'appartenenza sociale". Se proprio il battesimo, imposto alla minoranza ebraica come unico mezzo per evitare l'esilio, inserisce i convertiti nel mondo cristiano, esso non elimina tuttavia la loro "diversità", anzi l'aggrava. Ed è questo paradosso sociale a ricevere la puntuale attenzione di Prosperi, con singolare chiarezza d'indagine. L'"alone del dubbio" che circonda la figura dei nuovi cristiani (la conversione è autentica o nasconde una segreta fedeltà all'antica religione?) è infatti all'origine di una capillare discriminazione, in grado di sfruttare l'antigiudaismo popolare tenuto vivo dalla propaganza dei predicatori, e al tempo stesso di perfezionare l'efficienza del nuovo tribunale dell'Inquisizione, in Spagna controllato dal potere politico. In questa particolare situazione storica, legata all'"imperiosa esigenza di compattezza religiosa" del nuovo Stato spagnolo, la reazione sociale nei confronti degli ebrei convertiti si modifica allora radicalmente dopo il 1492: la minoranza, non più discriminata sul piano religioso, lo è sempre più spesso sul piano razziale in base "alla tesi di una differenza incancellabile depositata nel sangue" e "trasmessa ereditariamente". Si ricostruisce così "la barriera protettiva che era venuta meno" e si forma "la panoplia dei simboli dell'esclusione", con gli infamanti "segni di identificazione pubblica" degli ebrei. A questo punto l'autore, pur non impegnandosi ad allargare un quadro di riferimento cronologico rigorosamente rinascimentale, può cogliere i fattori di continuità: lo "spostamento dalla differenza religiosa alla differenza di razza e di sangue" si ripete infatti fra Sette e Ottocento, quando l'emancipazione degli ebrei prodotta dalla legislazione illuministica si accompagna all'ombra "nuova e diversamente minacciosa" del moderno antisemitismo, destinato ad accentuarsi fra Otto e Novecento per culminare nel nazismo e nella Shoah. Se il testo si apriva idealmente sulla constatazione che anche autori come Erasmo e Voltaire, "pilastri dell'idea di tolleranza e di libertà", hanno scritto pagine "fortemente antiebraiche", esso si chiude allora (con uguale esemplarità) ricordando l'antisemitismo affidato al "bello stile" dell'insospettabile Emilio Cecchi. Ma la diagnosi, ovviamente, non è circoscritta all'Italia liberale e basta percorrere i sentieri della cultura europea per prenderne coscienza. Non a caso il ritratto dell'ebreo Riah in Our Mutual Friend, il virtuoso vecchio saggio dell'ultimo romanzo completato da Charles Dickens, è lì per controbilanciare il profilo malvagio e stereotipato dell'ebreo Fagin nell'Oliver Twist di trent'anni prima. La buona coscienza, anche in questo caso, si accompagna alla propria ombra ed è un'ombra lunga, che risale alle radici stesse della modernità. Rinaldo Rinaldi
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