"Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi?" si domanda Tony Webster, protagonista dell'ultimo, affilato romanzo breve di Julian Barnes, vincitore del prestigioso Man Booker Prize. Perché è il tempo, con il suo scandire disciplinato, "tic tac, tic toc", che forgia e contiene le nostre esistenze, rendendole appunto misurate. Non un sussulto, nessuna stravaganza, nemmeno la tentazione di uno sbandamento a dare la scossa a un'esistenza ordinaria, modesta, quasi un simulacro di vita vera. Il sospetto, del resto, è che il tempo sia malleabile: basterebbe un dolore appena accennato, un esile piacere per alterarne il ritmo e stravolgerne la rassicurante regolarità. Così Tony vive al riparo dalle emozioni, sposa "una donna dai contorni chiari" da cui divorzia amichevolmente, ha una figlia con la quale imbastisce un rapporto di sensata e innocua cortesia, riordina e riassetta casa nella dimessa attesa ‒ ormai già ingrigito e impolverato ‒ di una fine che si conviene costumata. Finché la malacreanza del destino interviene a scompigliare quella prudente compostezza con una lettera del suo avvocato, che lo informa dell'imprevista eredità da parte di una donna: 500 sterline e un diario. È a questo punto che Julian Barnes ci imbarca sul battello della memoria e impone ‒ tanto al personaggio quanto a noi lettori ‒ la stessa esperienza di quieto orrore della marea del Severn a cui Tony aveva assistito da ragazzo. Riaffiora il ricordo distinto delle due ore di attesa, in riva al fiume, passate a osservare lo scorrere docile verso il mare, finché all'improvviso, "come se qualcuno avesse azionato una minuscola leva nell'universo", la natura e il tempo cominciarono a procedere "a rovescio". Brutale la risalita di una memoria messa a tacere per quarant'anni, insidioso il presentimento di risposte che quel diario potrebbe finalmente offrire e che forse sarebbe meglio tenere sommerse, nel fondo paludoso del rimosso. Scopriamo, infatti, che anche Tony Webster è stato giovane e, come tale, presuntuoso; che anche lui ha avuto degli amici, compagni di liceo con i quali, negli anni sessanta a Bristol, amava filosofeggiare e condividere la stessa "fame di libri e di sesso"; che una ragazza misteriosa ed enigmatica, figlia della donna del lascito, gli aveva perforato il cuore, preferendo a lui il più intelligente Adrian. È suo il diario. È suo il brillante suicidio con un taglio preciso, diagonale, delle vene. È sua l'ombra che invade, silenziosa e persistente, la mente di Tony Webster, per quanto il flusso del tempo l'abbia con gli anni stemperata al punto da cancellarne ogni nitido contorno. Ma adesso affiora anche il dubbio che il telefono senza fili della memoria abbia imbrogliato inesorabilmente la storia, individuale e collettiva, quella cioè che nasce all'accadimento di un dato episodio, ma che acquista valore solo in seguito, solo quando riesce a "dare un senso" al presente. Un senso che Tony, nella sua ovattante ottusità, non potrà mai nemmeno sfiorare, essendo inchiodato al ruolo dello spettatore miope, che rimane a guardare al davanzale della vita senza mai vedere. Abilissima la traduttrice, Susanna Basso, nel cogliere e rendere con precisione cronometrica gli scarti infinitesimali e gli impalpabili spostamenti di senso che la profusione di messaggi interni al testo ‒ lettere, telefonate, dialoghi riesumati, e-mail ‒ contribuisce ad accumulare. Ecco, c'è il problema dell'accumulo, difatti. La teoria matematica dell'esistenza che Tony mutua da Adrian, traducendola secondo convenienze personali, utili a distribuire le colpe: eventi che si sottraggono o si addizionano, la vita che si aggiunge alla vita. E poi il poeta (Philip Larkin, più volte citato nel romanzo), che conclude crudelmente, chiedendoci che differenza ci sia tra l'addizione e la crescita
Pare chiederselo lo stesso Barnes e con lui un'intera generazione di brizzolati scrittori inglesi ‒ Martin Amis con La vedova incinta, Paul Torday con La ragazza del ritratto ‒ quasi a tirare le somme e, come afferma Frank Kermode a cui si allude già nel titolo, a provare a "dare un senso al modo in cui diamo un senso al mondo". Daniela Fargione
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