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Anno edizione: 2015
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In questo libretto scritto dieci anni fa, l'autore individua un problema che si è ingigantito dopo la pandemia e i finanziamenti di PNRR. Il risultato è una scuola che vuole essere tecnologicamente avanzata, ma che resta arretrata sul piano della formazione dei docenti, della preparazione dei dirigenti e del quadro amministrativo, della qualità degli ambienti (gli edifici restano proprietà dei Comuni). La tecnologia a scuola riproduce le disuguaglianze di partenza e le accentua. La scuola come tappa della vita che si regge sull'uguaglianza delle opportunità ha di certo fallito. Un altro aspetto importante individuato dall'autore è la pervasività della psicologia. La personalizzazione degli apprendimenti, i bisogni educativi speciali, i funzionamenti come nella lista dell’ICF relativizzano la relazione educativa. Ne consegue che o gli insegnanti sanno personalizzare la proposta didattica, anche a costo di diminuire il peso di fattori standardizzanti, come il libro di testo; oppure la famiglia si rivolgerà a soggetti in grado di fornire risposte personalizzate sulle caratteristiche e il funzionamento della singola persona, ossia agli psicologi. Lo psicologo fornirà alla scuola una carta su come personalizzare gli apprendimenti, carta di cui gli insegnanti terranno conto. Da qui, il proliferare di diagnosi e certificazioni. Da qui la domanda: cosa può fare, dunque, un insegnante? Libro ancora attuale.
Alla luce della piega che la scuola ha preso dal 2020 con l’irruzione della pandemia e la massiccia introduzione della tecnologia informatica a supporto della didattica, il volume di Scotto di Luzio del 2015 appare quasi profetico. La posizione del pedagogista è chiara: non si tratta di demonizzare in generale le tecnologie informatiche, ma esprimere una sostanziale perplessità in relazione al loro uso nella scuola, avvenuto senza un’adeguata valutazione del loro impatto, senza un preciso obiettivo da conseguire, ma solo sulla base di una necessità imposta dal mercato. L’efficacia di determinati strumenti sugli apprendimenti si valuta sperimentando le ricadute in termini di literacy, che è la competenza linguistica, e di numeracy, cioè la capacità di calcolo e quantificazione, ma nei documenti che avviavano la sperimentazione informatica nella scuola italiana mancava qualsiasi discorso inerente alla valutazione di quelle competenze. Ciò che contesta l’autore, dunque, è l’assenza di una precisa progettualità dell’iniziativa, la carenza di un approccio sperimentale vero e proprio, ma anche, di fatto, l’impossibilità di valutare le ricadute e l’impatto sull’educazione della tecnologia informatica. Eppure, a fronte di una scarsità di informazioni in tal senso, vi è stato un massiccio investimento economico per portare nella scuola una quantità impressionante di materiale informatico, il cui scopo restava oscuro. Alla fine ciò che emerge è che l’introduzione della tecnologia informatica nelle scuole non è funzionale a colmare il digital divide, cioè la disuguaglianza tecnologica nel possesso e nelle competenze necessarie per l’uso delle tecnologie, giacché molto spesso questa non fa che sovrapporsi parallelamente alle disuguaglianze sociali, che invece restano intatte.
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