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Anno edizione: 2018
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In un tempo, nemmeno troppo lontano, la malattia, seria, specie se accompagnata da handicap fisici o mentali, era tabù, considerata una sorta di vergogna familiare che andava, quanto più possibile, nascosta. Mia nonna raccontava, abbassando la voce e guardandosi attorno con circospezione, di un vicino di casa che aveva vissuto tutta la vita, fortunatamente non lunga, recluso in una stanza senza che nessuno potesse vederlo. Autismo, sindrome di down, macrocefalia…….? E’ rimasto un mistero. Valeva anche per gli anziani affetti da malattie degenerative, o morbi, come più elegantemente Felice chiama l’amico Parkinson. Testimonianza, la sua, coraggiosa e che può, forse, servire da modesta consolazione per chi, in simile situazione, teme emarginazione e solitudine, e di questo dobbiamo essergli grati. Certo Felice è uomo colto, di discreta situazione economica, circondato da una invidiabile famiglia, e soprattutto ha saputo e voluto nella vita e nel lavoro lasciare una scia di affetto e simpatia, e tutto questo aiuta. Ma non basta parlare, c’è una grande battaglia politico-culturale da fare. Mi ha molto colpito, leggendo il libro, che il protagonista preferisca vivere a Roma piuttosto che ad Alatri. Ad orecchio sembrerebbe una contraddizione: un piccolo centro, la campagna dovrebbe essere per una persona con questo tipo di problemi più accogliente. Ma poi ci si guarda intorno: strade sfossate e pericolose anche per atletici ventenni, marciapiedi inesistenti o impraticabili perfino da passeggini per neonati, ascensori inclinati che funzionano un giorno sì e quattro no. Dai Felice, di cose da fare ce n’è tante. E' il pericolo di annoiarsi che non c’è.
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